mercoledì 22 maggio 2002

PICO DELLA MIRANDOLA E LA TRADIZIONE MAGICO-ERMETICA

di Enrica Perucchietti

«“Grande miracolo è l’uomo, o Asclepio” […] [Dio] stabilì che a colui, cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune tutto ciò che singolarmente aveva assegnato agli altri. Accolse perciò l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel tuo posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai […] ottenga e conservi […] Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti, tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine”». Questa citazione è tratta dal manifesto dell’Umanesimo, L’orazione sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico della Mirandola. Divenuto uno dei testi emblematici dell’Umanesimo, ricollegandosi esplicitamente al Corpus Hermeticum, esso verte sul significato metafisico e morale dell’uomo come “grande miracolo”. Tutte le creature sono state create da Dio come ontologicamente determinate, con uno scopo e una forma peculiari. L’uomo, invece, giunto ultimo nella creazione, è stato posto al confine dei due mondi, terreno e ultraterreno, in modo da essere egli stesso padrone del proprio destino, plasmando la propria natura secondo le forme di vita moralmente prescelta. La grandezza dell’uomo consiste nella propria indeterminatezza, nell’essere stato creato da Dio come libero artefice di se stesso. Potrà innalzarsi fino al cielo o degenerare al di sotto del livello animale. Nell’uomo Dio ha riposto tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri: i semi di ogni specie di vita, vegetali, animali, razionali e intellettuali. Se saranno coltivati i primi, l’uomo sarà pianta, se svilupperà quelli sensibili, sarà bestia; se razionali diventerà animale celeste, se, infine, avrà coltivato quelli intellettuali, ascenderà allo stato di “angelo e figlio di Dio”. In questo celebre discorso Pico presenta tutti i temi della sua magia; l’orazione si apre infatti con le parole che Ermete Trismegisto rivolge ad Asclepio, collocandosi esplicitamente nel contesto della magia ermetica. Alla dottrina dell’uomo-microcosmo fautore del proprio destino, si collega uno dei maggiori punti di rilievo della filosofia pichiana, la magia naturale (che riprende da Marsilio Ficino) e la cabala. L’uomo-mago di Pico, infatti, non è altri che il mago descritto nel Corpus Hermeticum.

La concordia filosofica
Convinto assertore della concordia di tutte le filosofie e religioni, nel 1485 Pico aveva deciso di organizzare a sue spese, a Roma, un grande convegno di dotti in cui avrebbe esposto le sue 900 tesi, Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae. Come introduzione vi appose l’orazione De hominis dignitate. Nel suo programma di pacificazione dottrinale, Pico intendeva dimostrare l’armonia tra sistemi differenti, conciliando Platone con Aristotele, Ermete Trismegisto e Tommaso d’Aquino, la filosofia scolastica latina con quella araba, la cabala ebraica e il cristianesimo. Sostenitore dell’unicità della verità, Pico credeva che tutte le scuole e i pensatori avessero in realtà espresso soltanto un aspetto della realtà. Ma, alcune di queste tesi furono giudicate eretiche e condannate dalla Chiesa. Pico le difese nel 1487 nella sua Apologia, ma inutilmente. Subì una serie di disavventure, imprigionato durante la fuga in Francia, liberato per intervento di Lorenzo il Magnifico, infine perdonato da Papa Alessandro VI nel 1493. Tra le 900 tesi vi sono 26 conclusiones magicae, che vertono sia sulla magia naturale che su quella cabalistica.

Magia naturale e magia demonica
La meditazione pichiana contentuta nell’Oratio ripropone tutti i temi delle sue opere: la magia è di due specie, naturale e demonica. Solo la prima è buona e “lecita” perché opera tramite la “simpatia”, ossia i legami spirituali che uniscono tutte le cose. Lo scopo della magia naturale è di sposare “la terra al cielo, cioè le forze delle cose inferiori alle proprietà di quelle superiori”. Praticare la magia, per Pico, “non è altro che maritare il mondo”, riformulando il tema centrale dell’alchimia: le nozze mistiche dei metalli. La vita e la sessualità costituivano un carattere universale del reale. Dall’antichissima alchimia indiana, cinese e babilonese, fino a quella medievale, la vita dei metalli, delle pietre e degli oggetti inanimati non si riduceva a una dinamica misteriosa o animista: la vita cosmica era organizzata come quella degli uomini, conosceva la nascita, la sessualità, la sofferenza e la morte. L’idea alchemica di “combinazione” e “matrimonio” sopravvisse nella magia del Medioevo e del Rinascimento: il mondo, in tutti i suoi livelli, è governato dalla medesima legge di vita, ovvero nascita, amore, sessualità, tortura e morte. Ma, la magia naturale già propugnata da Ficino non è in grado di consentire risultati davvero efficaci, perché non fa ricorso alle forze superiori, limitandosi all’uso di amuleti, talismani, simboli magici. Essa ha pertanto bisogno del completamento della magia cabalistica, ossia del ramo operativo della cabala ebraico-cristiana. Per magia naturale Pico intende l’istituzione di legami fra terra e cielo mediante l’uso di sostanze naturali, secondo i precetti della magia simpatica (che avrà il suo culmine nel panpsichismo universale di Tommaso Campanella). La magia simpatica attribuisce alla realtà forze e attività proprie dell’anima, ossia simpatie naturali che il mago può utilizzare e legare a suo piacimento, unendo e sposando le cose della terra a quelle del cielo mediante l’uso di virtutes naturales. Ma per influire sui vari livelli della realtà, la magia naturale deve ricorrere anche a figure simboliche, immagini astrali, caratteri magici impressi in un talismano, rese efficaci dallo spiritus naturale, dall’anima del mondo. Sono proprio i segni magici ad avere efficacia magica, e non il ricorso a sostanze naturali. Nell’ambito di questa magia Pico esalta l’efficacia degli “Inni di Orfeo”, che si devono eseguire con “la musica adatta” e “un’opportuna disposizione dell’animo”. Sebbene gli incantesimi orfici si basino sull’invocazione di nomi di dèi, essi non sono in alcun modo di carattere demonico: “i nomi degli dèi cantati da Orfeo non sono nomi di demoni ingannatori […] ma sono nomi di virtù naturali e divine, distribuite per tutto il mondo dal vero Dio a gran vantaggio dell’uomo, se questi sa servirsene”. Vi è invece una magia cattiva, giustamente proibita dalla Chiesa, opera del demonio e delle tenebre, condannata esplicitamente da Pico nelle sue conclusiones, così come era già stata rigettata da Marsilio Ficino. Bisognerà aspettare l’abate Tritemio, Cornelio Agrippa e John Dee per conoscerne i procedimenti.


La cabala pratica
Ma la magia naturale, compresi gli Inni orfici, senza il ricorso alla cabala, è inoffensiva quanto inefficace. Anche in questo caso Pico distingue due specie di cabala, una teorica, di carattere mistico, l’altra pratica, da intendersi come “la parte suprema della magia naturale”. Per quanto la cabala sia una dottrina mistico-esoterica, speculativa, avente come scopo la conoscenza di Dio attraverso una serie complessa di interpretazioni allegoriche e numeriche delle Scritture, ad essa è collegata anche un’attività magica. La cabala congiunge due aspetti: uno teorico-dottrinale di stampo mistico, l’altro pratico magico che si sviluppa sia in una forma di autoipnosi volta a realizzare su di sé la contemplazione, sia in forma magico-operativa, che si basa sull’alchimia delle lettere, ossia sul potere sacro della lingua ebraica e su quello proveniente dall’invocazione ebraica degli angeli (sia buoni che perversi), nonché delle sefirot, i dieci nomi indicanti i poteri e gli attributi di Dio. I cabalisti elaborarono infatti molti nomi angelici, sconosciuti alle Scritture, a cui attribuirono grande efficacia. Convinto del potere delle lettere e dei nomi ebraici, Pico studiò intensamente la lingua ebraica, divenendone uno dei migliori conoscitori rinascimentali. L’alfabeto ebraico, per il cabalista, riflette la natura spirituale del mondo e il linguaggio creativo di Dio. Avvalendosi della gematriah, ossia dell’interpretazione delle lettere attraverso il loro valore numerico, il cabalista è in grado di desumere dal testo biblico innumerevoli e insospettati significati che nascono dalla sostituzione di parole con altre aventi lo stesso valore numerico. Pico credeva inoltre che la cabala risalisse alla più antica tradizione, addirittura a Mosè, che l’avrebbe tramandata oralmente sotto forma iniziatica ad alcuni eletti, inaugurando una credenza che avrebbe avuto il suo culmine ideologico nella magia cabalistica ottocentesca di Eliphas Levi. Nell’Apologia Pico ha spiegato la suddivisone della cabala in due rami, distinguendo tra una scienza speculativa e una operativa. La prima, definita “filosofia cattolica”, è una tecnica di combinazione delle lettere costituita da alfabeti rotanti, identificabile con l’ars combinandi di Raimondo Lullo, ma risalente probabilmente al mistico Abraham Abu’l-‘Afiya. La seconda scienza cabalistica, definita come “la parte suprema della magia naturale”, riguarda una tecnica che utilizza i poteri di quelle sfere sovracelesti che sono al di sopra della luna, metodo connesso alle tecniche della magia naturale ma ad essa superiore. La magia naturale si avvale delle stelle, mentre la cabala pratica si rivolge a una dimensione trascendente, rivolgendosi direttamente a Dio. In uno stato di estraniamento mistico in cui l’anima intellettuale si separa dal corpo, il cabalista può comunicare con Dio attraverso la mediazione degli arcangeli. Il pericolo è che l’intensità dell’esperienza estatica conduca alla morte corporale, detta la “morte del bacio” (secondo una leggenda ebraica a Mosè, che, non riuscendo ad accettare la punizione divina che gli avrebbe impedito di entrare nella Terra Promessa, si rifiutava di morire sul monte Nebo, Dio strappò l’anima con un bacio, discendendo su di lui). Al contempo i procedimenti della cabala pratica sono di due tipi, così come avviene per la magia bianca e nera. Vi è una forma perversa, degenere di cabala rapportabile alla negromanzia. Questa falsa cabala è praticata da coloro che invocano i demoni, con l’intento di acquisire un potere del mondo sovraceleste per scopi perversi. L’unica differenza di metodo tra la cabala buona e quella demoniaca è il fine. I fautori della prima invocano, oltre ai nomi segreti di Dio, soltanto i nomi degli angeli buoni, rifiutando il ricorso alle evocazioni demoniache. Pico credeva inoltre che l’inefficacia della magia propugnata da Ficino fosse il mancato ricorso a formule in lingua ebraica. Nessuna operazione magica può fare a meno dell’apporto della cabala, e, dunque, del potere sacro della lingua ebraica. Ma nessuno deve praticare le operazioni cabalistiche se non dopo essersi adeguatamente purificato, per non incorrere nell’invocazione dei demoni e per non finire “divorati” dal terribile angelo del male, Azazel. Così come avviene per la magia naturale, per lo yoga e per l’alchimia (soprattutto quella tantrica indiana), l’adepto deve premunirsi dai pericoli demoniaci, adempiendo a ferree regole di purificazione rituale. La magia cabalistica di Pico sarebbe stata ripresa e spiegata prima da Johannes Reuchlin nel suo De arte cabalistica, poi, ampliata e ricodificata nella magia angelica di Johannes Tritemio e Agrippa di Nettesheim, sistema che sarebbe stato adottato da John Dee ed Edward Kelley senza più la distinzione tra pratiche bianche e nere, unendo e confondendo le operazioni alchemiche alle evocazioni spiritiche e alla negromanzia. Con Dee e Kelley si segna il passaggio dallo studio puramente speculativo delle arti occulte alla pratica della magia angelica enochiana che vedrà il proprio culmine nella fioritura delle operazioni magiche della Golden Dawn.