lunedì 22 dicembre 2003

ALCHIMIA, SPIRITISMO E TRADIZIONE NELLE OPERE DI GUSTAV MEYRINK

di Enrica Perucchietti


Sposare un altro significa rimanere due. Contrarre un matrimonio è qualcos’altro; significa diventare un’unica cosa. Quello che rimane doppio, invecchia e muore, perché sta al di fuori del presente segreto


(Gustav Meyrink, La casa dell’alchimista).

Sublimazione letteraria del suo vissuto e delle teorie “tradizionali”, l’opera dello scrittore austriaco Gustav Meyrink è legata a filo doppio alla sua vita e alle sue esperienze iniziatiche.
Dopo il ritrovamento del cadavere del figlio Harro, suicidatosi a 24 anni in seguito a un incidente stradale che lo aveva costretto su una sedia a rotelle, Meyrink, straziato dal dolore e da tempo malato, si lascia morire all’alba del 4 dicembre 1932 seduto a petto nudo nella sua camera con la finestra aperta, incurante del freddo. La sua morte lascia incompiuto il romanzo La casa dell’alchimista, di cui rimangono soltanto tre bellissimi capitoli e un exposé che fanno intuire la grandezza di quello che sarebbe stato un altro capolavoro se il dolore per la perdita del figlio non lo avesse stroncato.
Meyirink nasce a Vienna il 19 gennaio 1868; è figlio naturale dell’attrice di corte Maria Wilhelmine Adelaide Meyer e del ministro del Wurttemberg Karl Freiherr Varnbuler von und zu Hemmingen. Il padre, nonostante viva a Berlino con la famiglia legittima, finanzierà i suoi studi. L’indifferenza della madre nei confronti del figlio ne suscita un odio profondo; egli trascorre infatti l’infanzia a Monaco con la nonna materna. Maria Meyer viene spesso scambiata con un’altra attrice teatrale, Clara Meyer, che era ebrea: da qui l’equivoco che Meyrink fosse ebreo.
Nel 1883 si trasferisce a Praga, la città amata e al tempo stesso odiata che sceglierà come ambientazione per molti suoi romanzi e racconti; si iscrive all’Accademia commerciale e, a 21 anni, fonda, in società con il nipote dello scrittore Christian Morgenstern, la banca “Meyer und Morgenstern”. In questo periodo il giovane suscita le antipatie della borghesia benpensante praghese, conducendo una vita dissoluta tra avventura amorose, circolo-canottieri, scacchi e duelli d’onore.
La leggenda vuole che a 24 anni (proprio come il figlio Harro) le stravaganze della vita praghese gli andassero strette e, in piena crisi esistenziale meditasse il suicidio; al momento di premere il grilletto – così riferisce nello scritto autobiografico La Guida – qualcuno avrebbe fatto scivolare sotto la sua porta un opuscolo occultista dal titolo La vita dopo la morte: quest’episodio apparentemente casuale lo distoglie dall’intento del suicidio, risvegliando nel futuro scrittore “un’ansia ardente di conoscenza, una sete struggente, inesauribile” verso ciò che trascende la mera quotidianità. Inizia così la sua ricerca nel campo esoterico che però, in principio, più che una precisa ricerca si configura come un vagare sincretico nel labirinto delle arti occulte. Il giovane Gustav si avvicina così a tutto ciò che viene fatto passare per “sapere esoterico”: il suo interesse si rivolge allo spiritismo, allo studio delle dottrine esoteriche, in particolare orientali, all’alchimia spirituale, alla magia, ai fenomeni paranormali, allo yoga sperimentando sempre tutto in prima persona, con lo stesso fervore che ne aveva caratterizzato la sfrenatezza. Studia la Teosofia di Madame Blavatsky e apprende i primi rudimenti dello yoga alla Easter School di Annie Besant. Frequenta circoli spiritistici, credendo inizialmente di avervi trovato la Via; nel 1891 fonda insieme a Karl Weinfurter la “Loggia della stella blu”.
Dieci anni dopo, a causa di un incidente sportivo viene ricoverato nel sanatorio Lehmann di Dresda, dove incontra A. H. Smitz. Costui, riconoscendogli un’incredibile facilità nel raccontare storielle, gli suggerisce di provare a scrivere con la stessa freschezza con cui parla: è così che il 21 ottobre 1901 viene pubblicato sulla famosa rivista satirica “Simplicissimus” il suo primo racconto Il soldato bollente. Tra il 1901 e il 1908 vengono pubblicate trentotto novelle che rendono il nome di Meyrink famoso e apprezzato nell’ambiente letterario. I suoi racconti fantastici, macabri e grotteschi mostrano l’accanirsi dello scrittore contro la borghesia praghese e l’ottusa mentalità militare.
La richiesta di divorzio dalla prima moglie Hedwig Aloysia Certl (l’altera Aglaia del Domenicano Bianco, il romanzo pubblicato nel 1921) scatena però le ire della borghesia che trama contro di lui: nel 1902 viene accusato ingiustamente di usare lo spiritismo nella sua professione e incarcerato; dopo due mesi e mezzo viene riconosciuto innocente e rilasciato ma la sua carriera è definitivamente stroncata. La detenzione lo ha rovinato finanziariamente e ha inoltre causato l’aggravarsi della sua malattia: solo grazie alla dura disciplina dello yoga scampa la morte. Questo episodio verrà descritto nel Golem, dove il protagonista, Athanasius Pernath, viene arrestato ingiustamente subendo la tortura del carcere praghese.
Nel 1904 si trasferisce a Vienna dove riesce finalmente ad ottenere il divorzio dalla moglie e a sposare in seconde nozze Philomena Bernt, figlia di un noto banchiere e cugina di Rainer Maria Rilke. Nel 1906 e nel 1908 nascono rispettivamente la figlia Sybille Felicitas e il figlio Harro Fortunat.
Nel 1915 esce il suo primo e più famoso romanzo, Il Golem, che, con 220.000 copie vendute, segna l’apice del successo di Meyrink. Tra i suoi ammiratori, però, molti non apprezzano quella che viene considerata un’inopportuna svolta mistica. In questo romanzo che gli diede celebrità e a cui si ispirerà il regista Paul Wegener per l’omonimo celebre film, trovano spazio gli insegnamenti cabalistici, la leggenda del golem e del suo creatore, il mitico rabbino Loew, i tarocchi intesi simbolicamente a illustrare sia le fasi del processo alchemico che le avventure del protagonista, magia, misticismo e, infine, il tema più caro alla narrazione meyrinkiana: il mito dell’ermafrodito come unione perfetta dell’elemento maschile e femminile.
Nel 1916 esce Il Volto verde, che descrive la disciplina dello yoga, le tecniche di concentrazione e il pranayama (ossia il controllo del respiro e il conseguente rallentamento cardiaco) atti a potenziare il dominio della mente sul corpo, a risvegliare i poteri magici insiti nell’uomo e a conseguire l’immortalità. L’anno successivo viene pubblicato La notte di Valpurga, il più visionario dei suoi romanzi, che unisce al misticismo la più mordace delle critiche sociali. Nel 1921 esce Il Domenicano Bianco, un romanzo ispirato al taoismo e al sapere tradizionale, che si nutre delle teorie orientali sull’alchimia spirituale. Due anni dopo viene pubblicato il suo ultimo, e più discusso, romanzo completo, L’angelo della finestra occidentale, che vede come protagonista il mago rinascimentale John Dee. Questo libro racchiude la più completa e sistematica critica di Meyrink allo spiritismo, accusato di distogliere l’uomo dalla Verità promettendogli una conoscenza illusoria che lo trascina invece in un vortice di menzogne e perdizione. Meyrink riconosce che la Verità non può che situarsi in interiore homine, rifiutando qualsiasi rassicurante soluzione trascendente né tanto meno fideistica. Meyrink, come Evola, crede in una via “pagana”, “eroica” al Divino: per lui l’iniziato è un Dio. La divinità è latente nell’uomo in quanto l’anima è quella scintilla divina che, se risvegliata, conduce l’uomo a farsi dio.

L’angelo della finestra occidentale
Julius Evola, che curò le edizioni italiane dei romanzi di Meyrink e che per primo lo fece conoscere in Italia esponendo il suo pensiero in una serie di articoli a partire dal periodo del “Gruppo di Ur” (poi raccolti in Introduzione alla Magia), riferisce che, secondo la leggenda, Meyrink sarebbe entrato in possesso di speciali manoscritti relativi alla vita di John Dee, forse addirittura i suoi diari, e che, proprio sulla base della materia biografica in essi contenuti, avesse sviluppato la sua narrazione. Non è possibile stabilire la veridicità dei molti dettagli del romanzo riguardanti la vita di John Dee che non trovano riscontro nella sua biografia ufficiale; può darsi che alcuni dei dati inseriti da Meyrink siano stati semplicemente inventati, come l’amore per la regina Elisabetta, l’alta nobiltà dei Dees e la loro discendenza da Hoel Dhat, la scarcerazione di Dee - arrestato per azioni magiche contro la regina Maria - per intervento della ancora principessa Elisabetta. Storici sono invece i suoi viaggi, l’incontro e la collaborazione con Kelley, la fuga dall’Inghilterra nel 1548 perché sospettato di congiure politiche, il rapporto - non ben precisato - con l’imperatore Rodolfo d’Asburgo e con Massimiliano II, il dissidio sopravvenuto in seguito fra il mago e Kelley, l’incendio del castello di Mortlake la sua morte in miseria nel dicembre del 1608; il romanzo trae comunque linfa dai temi cari al pensiero tradizionale, la magia, il tantrismo, la critica allo spiritismo, l’iniziazione, l’alchimia, la ricerca della condizione umana perfetta attraverso l’amore e l’assorbimento del principio femminile in quello maschile: l’androginia.

Eredità spirituale
La trama, romanzesca o verosimile che sia, s’incentra su un motivo che ritroviamo già nel Domenicano Bianco e che, come ha più volte chiarito Evola, non va confuso con il tema della reincarnazione: si tratta della concezione secondo la quale ogni essere umano, lungi dal rappresentare un “Io” autonomo, sarebbe invece la rappresentazione contingente di una sorta di demone famigliare, anteriore e superiore alla sua esistenza finita in terra e che può fornire la base e la continuità di trasmissione di coscienza, ovvero la continuità di un destino da adempiere, di una “personalità” che deve essere conseguita, attivamente conquistata attraverso la trasmissione di un particolare “destino” da un ramo all’altro della stirpe, da un antenato a un altro, lungo le varie generazioni, verso il compimento di questa eredità spirituale. Per la discendenza dei Dees, come per tutti i personaggi dei romanzi dei Meyrink, questo destino si configura come il conseguimento dell’androginia spirituale, ovvero l’assorbimento del principio femminile in quello maschile. Da solo, infatti, nessun uomo può raggiungere la Vita vera: egli ha bisogno di una compagna. Soltanto le forze congiunte dell’uomo e della donna possono rendere possibile il “Risveglio” e la conseguente immortalità. La “via del sangue” può dunque condurre a una serie di esseri imparentati fra loro che, in realtà, non sono altro che un unico essere che si ripete, incarnandosi da un avo al successivo discendente, finché una manifestazione terrena di questo ceppo famigliare non riesca ad adempiere al proprio destino, risvegliandosi e costituendo così il proprio “Io” (l’Io della stirpe): solo in questo caso il ciclo si chiude con la genesi magica di colui che è risorto in questo mondo e nell’altro, ossia che ha valicato i confini della Vita ed è divenuto un Vivente in senso eminente. Nel momento del “Risveglio”, ossia dell’unione tra l’ultimo ramo della progenie con il primo antenato, la stirpe si ricongiunge chiudendo “l’anello dell’eternità”. Per Meyrink il corpo dell’uomo è davvero “la casa in cui dimorano i suoi avi”, il conduttore dei semi che il sangue trasmette da un ramo all’altro della stessa progenie.
Il 1927 è l’anno che vede la conversione del romanziere austriaco al buddhismo; cinque anni più tardi la sventura si abbatterà sulla sua famiglia portandolo, sulle orme del figlio, al suicidio.

Praga città magica
La città magica di Praga rivive nei suoi romanzi, nella descrizione del ghetto ebraico, nell’atmosfera surreale delle leggende praghesi. Le sue opere s’ispirano solo esteriormente alla letteratura gotica e fantastica di Hoffmann e Poe, in quanto riprendono tematiche ermetiche più vicine al nucleo occulto del Necronomicon di Lovecraft che ai classici del terrore.
Le storie di Meyrink, dominate da visioni oniriche, spettri, doppi, avventure rocambolesche, intrecciano al fantastico un reale contenuto “iniziatico”, come dichiarò Evola in sua difesa, un sapere ermetico, alchemico, cabalistico. La critica all’ipocrisia borghese si tinge di grottesco, i personaggi vivono stritolati dall’angoscia del ghetto, soffocati dal peso di un’esistenza senza senso, dominati da eventi magici apparentemente inspiegabili, che acquistano senso alla fine dei racconti.
Alla base dell’opera di Meyrink si pone la “Dottrina del Risveglio”, che divide l’umanità nei ”Viventi”, i Risvegliati, ossia coloro che hanno raggiunto una superiore forma di esistenza, che sono stati iniziati al sapere e quindi svegliati alla vita vera, e i dormienti, la grande massa degli uomini, che non posseggono un vero Io, ma solo un fantasma di esso. Il pensiero di Meyrink riprende la distinzione di Gurdjeff tra la massa di uomini comuni privi di anima, e gli Iniziati che, possedendo il germe dell’immortalità lo hanno sviluppato seguendo pratiche occulte.
Nei suoi romanzi troviamo insegnamenti esoterici espressi a livello simbolico, come nel Golem, e nella Notte di Valpurga o in maniera esplicita come nel Volto verde e nel Domenicano Bianco. Come abbiamo accennato, Meyrink fu un autore molto amato da Evola, che credeva realmente che lo scrittore austriaco fosse stato iniziato al sapere “tradizionale” e fosse in contatto con maestri indù. Non ci è dato sapere nulla riguardo la sua eventuale iniziazione, né alcunché in merito alle misteriose figure di maestri indù che egli avrebbe conosciuto; le notizie sulla vita di Meyrink si confondono tra realtà e leggenda. Egli amava sottolineare che l’origine del suo scrivere erano le sue “visioni”, ossia le immagini inconsce richiamate dalla sua immaginazione attiva e stimolate dalla pratica dello yoga, le cui tecniche di meditazione sono ampiamente descritte in Volto Verde. In un’intervista Meyrink spiegò, infatti, che le avventure dei suoi romanzi erano in realtà “vesti” simboliche che riflettevano proprie esperienze e che i personaggi in realtà egli li “vedeva”.

Critica allo spiritismo
Come abbiamo anticipato, nella giovinezza Meyrink si era interessato alle scienze occulte e alla pratica della magia; per un certo periodo aveva frequentato combriccole di spiritisti, da cui si era velocemente distaccato condannandole aspramente. Nel Domenicano Bianco troviamo infatti una critica feroce allo spiritismo, capace di evocare solo “larve spettrali”, entità demoniache che irridono e ingannano l’uomo assumendo immagini di defunti cari a coloro che le evocano: «è la forza impersonale del Male ad evocare cose prodigiose grazie alle leggi mute della natura». Come abbiamo visto, per Meyrink la “personalità” non è che un miraggio, al più può essere intesa come l’ideale di un fine da realizzare: da ciò egli desume che, non potendo parlare di “anima” in senso stretto, attraverso lo spiritismo si cercherebbe invano di evocare le “anime” dei morti, e che «se gli spiritisti sapessero chi sono realmente coloro che obbediscono ai loro richiami, forse morrebbero di paura».
Le evocazioni delle sedute spiritiche sono opera della “Testa di Medusa”, “simbolo del potere pietrificante” che dietro false dottrine spinge l’uomo verso l’abisso della morte; dietro le parole degli spiriti ingannatori si cela infatti «la profezia di terribili sciagure […] la lingua biforcuta di una vipera delle tenebre. Parla del Salvatore e in realtà intende Satana». Lo spiritismo è definito da Cristoforo, il protagonista del Domenicano Bianco, una “voragine di disperazione”: è simile «ad un’epidemia di peste che inonderà l’umanità […] quando vedremo i morti risorgere dalle tombe e mentire, mentire, mentire, in modo più spudorato di ogni altra creatura della terra, perché sono entità demoniache illusorie, sono embrioni, generati da un accoppiamento infernale!».
La critica allo spiritismo di Meyrink è analoga a quella dei maggiori interpreti della Tradizione Primordiale, Julius Evola e René Guénon. In Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932, Evola svilupperà la propria condanna ai fenomeni medianici in termini identici a quelli dello scrittore austriaco, definendo la medianità come: «un metodo cosciente per ottenere o accentuare la disgregazione dell’unità interna della persona. Avendo reso libero dal corpo un certo gruppo di elementi più sottili, l’uomo diviene l’organo per la incarnazione e poi per la manifestazione nel nostro mondo (che altrimenti resterebbe loro precluso) di forze ed influenze di natura estremamente varia, ma sempre subpersonali, che il medium non può in alcun modo controllare giacché la sua coscienza o coglie soltanto degli effetti, ovvero scivola addirittura nel sonno, nella trance, nell’automatismo, nella catalessi».
Lo spiritismo è per Evola, come per Meyrink, l’avanguardia del nuovo spiritualismo; il medium si fa strumento per l’incarnazione di forze oscure e impersonali che «aleggiano ai margini della realtà, da cui sono escluse», in quanto egli fa da medium, cioè diviene un tramite per quelle forze, in modo che esse possano esercitare un’azione infernale sul nostro mondo e sulle nostre menti, che contro di esse restano indifese giacché manca la «controparte di quelle influenze di senso opposto, cioè effettivamente sovrannaturali, che le religioni, quando non si riducevano, come oggi, ad un complesso di esigenze sentimentali e di costruzioni teologiche, sapevano attrarre e innestare invisibilmente ai nostri pensieri, alle nostre intenzioni, alle nostre azioni». Lo spiritismo, in quanto trascina la coscienza verso il subnormale, l’impersonale, aprendosi a forze che non sono al di sopra dell’uomo ma al di sotto, è da intendersi come l’opposto dello yoga e dell’alchimia che, invece di “ridurre” la coscienza, la sviluppano in senso iniziatico, metafisico, trascendente, trasformandola in “supercoscienza”.
Dopo un inizio incerto tra gli spiritisti, Meyrink, grazie all’incontro con maestri indù e ambienti cabalistici, giunse a conoscenza del vero nucleo sapienziale e, secondo Evola, «fu in grado di formulare una concezione complessiva della vita ad orientamento magico e iniziatico che, sebbene esposta in romanzi – romanzi aventi alto valore artistico – per la sua chiarezza e autenticità trova difficilmente riscontro in opere dedicate specificamente a questa materia» (Evola, 1977: 102).
La Dottrina del Risveglio ha alla base l’idea che immortale sia soltanto l’uomo svegliato, l’adepto che ha percorso la via della Vita, anche se sembra che Meyrink considerasse necessaria una sorta di “vocazione” o “predestinazione”, dovuta al richiamo del sangue, degli avi che albergano nel corpo e nello spirito di ogni uomo, per avviarsi verso il cammino del Risveglio.

Il Domenicano Bianco
Il Domenicano Bianco è un romanzo metafisico, una storia iniziatica colma di insegnamenti spirituali e alchemici; il protagonista, Cristoforo, è chiamato a ricevere la conoscenza e a diventare un maestro supremo, a far parte della “Catena dei Viventi”, a trasfigurare il proprio corpo in spirito e ascendere a una dimensione superiore dell’esistenza, attraverso un cammino denso di pericoli e prove. I maestri dell’ordine segreto, ossia coloro che hanno attinto la sapienza e “varcato la soglia”, si sono incamminati dall’infinito all’eternità, sono diventati «l’anello invisibile di una catena, costituita da mani invisibili, che non si lasceranno mai fino alla fine dei giorni». È questo un altro tema centrale che esprime la credenza nella Tradizione primordiale: l’esistenza di un “Ordine” di Adepti, gli “Svegliati” appartenenti alla “catena dei Viventi”, esseri che risiederebbero in un centro occulto, situato forse in Tibet o India, da cui controllerebbero in maniera invisibile il destino dell’umanità. Questo tema riprende il mito del “Re del Mondo”, che, dalla città sotterranea di Sambhala, capitale del regno occulto della “Caverna” (Agartha), guiderebbe, da tempi immemorabili, il destino e le vicende del mondo, leggenda tibetana raccontata da Guénon, Sant-Yves d’Alveydre, Helena Blavatsky e Ossendowsky. Allo stesso modo anche il protagonista del Volto verde, Fortunat Hauberisser, decide di scrivere le proprie memorie per testimoniare la sua ricerca interiore e la scelta di divenire un anello di quella invisibile catena di iniziati.
Lo spirito di questa comunità di saggi illuminati «pervade tutta la terra; esso è sempre onnipresente […] chi è diventato cima e porta in sé inconsapevolmente la radice primordiale, entra consapevolmente in questa comunità sperimentando su di sé quel mistero che si chiama “il dissolvimento con il corpo e con la spada”». Esso è un procedimento cinese, a cui sono stati resi partecipi migliaia di uomini, sebbene continui a rimanere misterioso. Meyrink distingue il “dissolvimento con il corpo” dal “dissolvimento con la spada”; nel primo caso il corpo del defunto diviene invisibile e «costui si eleva ad immortale», mentre nel secondo caso, «al posto della salma del defunto rimane nella bara una spada […] I due “dissolvimenti” sono un’arte che, coloro che sono più progrediti su questa via, comunicano agli adepti che ne sono degni». Uno degli adepti che ha conseguito la trasfigurazione è il leggendario Tung Tschung-Khiu: «durante gli anni della sua giovinezza praticò la respirazione del soffio spirituale, purificando in questo modo le sue forme. Fu accusato ingiustamente e messo in catene in prigione. Il suo cadavere si dissolse e sparì».
Sebbene inserito in narrazioni fantastiche, il tema della respirazione controllata cinese verrà ripresa e approfondita scientificamente da uno dei massimi storici delle religioni, sicuramente il più famoso, Mircea Eliade, nelle sue opere sull’alchimia orientale (Alchimia Asiatica, Tecniche dello Yoga, Yoga: immortalità e libertà, Arti del metallo e alchimia, Mito dell’alchimia), sotto il nome di «respirazione controllata – lianqui, termine interpretabile come “trasmutazione della respirazione”», «pratica taoista della “respirazione embrionale”». Un altro elemento in comune alla trattazione dei due autori è il cinabro, che Eliade definisce «sostanza dotata di un potere talismanico e particolarmente apprezzato per le sue virtù rigeneratrici. Il suo colore rosso era ricco di proprietà vitali, essendo simbolo del sangue – il principio della vita – e svolgeva per questo un ruolo fondamentale nell’accesso dell’immortalità»; fin dall’antichità si credeva che il cinabro, «messo sul fuoco […] producesse mercurio […] “l’anima di tutti i metalli”» e per questo veniva utilizzato nelle tombe dei ricchi con lo scopo «di assicurare loro l’immortalità». Come nel caso dell’oro, della giada e delle perle, che venivano utilizzate dai cinesi come ornamenti, sia per il loro valore simbolico, sia per il principio yang di cui erano dotate, il cinabro, nel Domenicano Bianco, è il colore delle vesti degli iniziati e dà il nome al sacro “Libro Color Cinabro”, che racchiude il segreto del sapere alchemico: l’immortalità. Solo colui al quale esso si dischiuderà rivelando i propri segreti «non lascerà nessun corpo dietro di sé, si porterà nel mondo dello spirito un lembo di materia e vi si dissolverà. In questo modo egli lavorerà alla Grande Opera dell’alchimia divina; trasformando il piombo in oro, l’infinito in eternità…». Attraverso l’insegnamento alchemico, lo spirito di luce che pervade i corpi degli uomini si consoliderà «finché, divenuto un raggio di luce, inizierà a comprendere le maglie della rete del corpo e si congiungerà con la grande luce […] Nel libro Color Cinabro è scritto: “Qui si cela la chiave di ogni magia. Il corpo non può nulla, lo spirito può tutto. Allontana ciò che è del corpo, allora il tuo Io, quando si sarà completamente denudato, comincerà a respirare come puro spirito”».
Lo scopo dell’alchimia spirituale è risvegliare “consapevolmente” la spiritualità che giace in potenza nell’adepto; seguendo i precetti della “Tradizione” il miste deve trasfigurarsi, spiritualizzando il proprio corpo per dissolversi trapassando in una dimensione più elevata. La trasmutazione conduce all’eternità, alla vita eterna; Cristoforo, superate le prove iniziatiche sprigiona «le forze magiche che giacciono assopite in lui» e viene ammesso nell’Ordine degli illuminati: «mani invisibili afferrano le mie con la presa dell’ordine, mi inseriscono in una catena vivente che si perde nell’infinito. Viene arso ciò che in me c’è di corruttibile, la morte lo trasforma in una fiammata di vita. Rimango eretto in una ignea veste purpurea, mi cinge i fianchi la spada di ematite. Sono dissolto, per sempre, con il corpo e con la spada»: così si conclude Il Domenicano Bianco.

Androginia spirituale
In tutti i suoi racconti iniziatici Meyrink inserisce il “senso occulto dell’unione matrimoniale” in relazione all’androginia e alla tecnica alchemica di realizzazione spirituale. Nel Volto verde, il cabalista ebreo Ismael Sephardi, illustrando la “Via della Vita” che conduce alla forma superiore di esistenza dei “Viventi”, degli adepti alla Dottrina del Risveglio, afferma che l’uomo da solo non è nulla e non può giungere a quella meta: «un uomo da solo non può raggiungere questo traguardo [oltrepassare il “ponte della vita”], ha bisogno di…una compagna. Solamente le forze congiunte dell’uomo e della donna rendono possibile l’impresa. Proprio qui sta il senso più profondo del matrimonio, quel senso che l’umanità ha smarrito da millenni». Questa unione magica rimonta all’androgine, alla realizzazione, platonico-alchemica, dell’essere completo.
Come ha spiegato Evola in un articolo del 1972, l’idea base è che l’istinto sessuale sia la “radice della morte”, ma che non bisogna sforzarsi invano di estirparlo come fanno gli asceti; essi «vogliono conquistarsi quella freddezza magica, senza la quale non si può andare al di là della condizione umana, e fuggono perciò la donna. Eppure solo la donna è colei che è in grado di recare loro aiuto». Il compito dell’uomo non è quindi sfuggire la donna, ma assorbirne il principio femminile, in terra disgiunto da quello maschile, «deve entrare in quest’ultimo e fondersi in uno; solo allora si placheranno tutti gli struggimenti della carne»; solo con questa unione occulta, “che non è priva di pericoli”, si compieranno le nozze alchemiche e si realizzerà quella «freddezza magica che spezza le leggi della terra […] dalla quale sgorga, come dal Nulla, tutto ciò che è in grado di creare il potere dello spirito».
Gli insegnamenti gnostico-esoterici all’origine delle opere di Meyrink si propongono il ritorno all’unità originaria; da un punto di vista psicologico e non “tradizionale”, Alessandra Pepe ha interpretato in chiave junghiana il mito dell’androgino come il tentativo di «realizzare la totalità conscia e inconscia della psiche attraverso l’integrazione del proprio Sé», illustrando, quindi, il tema dell’androginia, consistente nella «conquista del proprio istinto sessuale […] tramite l’unione con il principio femminile presente nell’uomo», come rivisitazione simbolica del junghiano processo d’individuazione. Le donne dei romanzi di Meyrink sarebbero, dunque, personificazioni dell’elemento femminile che l’uomo deve integrare per conseguire l’unità; Meyrink, «prima ancora di Jung, aveva dunque compreso il significato simbolico delle “nozze alchemiche”».
Nel Golem è Miriam, la donna che si unirà in legame eterno con mastro Pernath, a illustrare il tema dell’androginia: «è uno dei miei sogni […] immaginare che la meta ultima è la fusione di due esseri […] in quello che può essere simboleggiato dall’Ermafrodito […] intendo dire l’unione magica dei generi maschile e femminile in un semidio. Come meta ultima! Neanche, non meta ultima, ma principio di una vita nuova, eterna – che non ha fine». E quando il protagonista, ancora inconsapevole di esserne l’anima gemella, le chiede se spera davvero di trovare un giorno la sua perfetta controparte maschile, e se non ha paura che invece non esista o che risieda nella parte opposta della terra col rischio di non incontrarla mai, ella risponde semplicemente che se non dovesse mai incontrarla la sua vita perderebbe senso: «se fosse separato da me nello spazio e nel tempo […] o dall’abisso del non riconoscersi a vicenda, e dunque non lo trovassi: ebbene, la mia vita non avrebbe avuto scopo alcuno, sarebbe stata il gioco senza senso di un demone imbecille».

Evola e Jung
Evola cita Meyrink nelle proprie opere in più riprese; in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932 presenta il pensiero del narratore austriaco nella sezione dedicata alla magia, intesa come “attitudine metafisica”, nel mondo moderno, a fianco di Giuliano Kremmerz ed Eliphas Levi per i quali il mago è «lo svegliato per eccellenza- colui che è e che può, in virtù non di mezzi indiretti o esterni, ma appunto per via della stessa superiorità che il suo “risveglio” gli ha conferita nell’ordine di quelle forze più profonde». Secondo Evola, per Meyrink il «problema “dell’aldilà” esiste già nell’al di qua. “Coloro che non imparano a vedere qui, di certo non impareranno là”». Per Meyrink l’immortalità è risveglio, e il risveglio è «“crescenza interiore oltre la soglia della morte”, cioè in uno stato indipendente dalle impressioni esteriori e dalle eredità interiori. Gli “svegliati” sono i “viventi”, gli unici, sia in questo che negli altri “mondi”, che non siano dei fantasmi. Meyrink: “Nell’aldilà non vi è alcuno di coloro che sono partiti ciechi dalla terra” […] Meyrink: “Veramente immortale è l’uomo compiutamente sveglio. Gli astri e gli dei se ne vanno; solo lui rimane e può tutto ciò che vuole. Sopra di lui non vi è alcun dio. Quello che l’uomo religioso chiama dio, non è che uno stato. Questa stessa esistenza non è che uno stato. La sua inguaribile cecità gli para davanti una barriera che egli non osa scavalcare. Egli si crea una immagine per adorarla, anziché trasformarsi in essa”». L’ascesi magica consisterebbe dunque in un “denudarsi” dagli elementi e aggregati dell’“io storico”, affinché «ogni distacco valga come una interiore formazione, una crescenza oltre il suolo di quell’Io». Se Evola parla quindi di Meyrink in vari contesti dai Saggi sull’Idealismo Magico agli articoli della maturità, Gustav Jung si riferisce all’intreccio narrativo del Golem in Psicologia e Alchimia, esaltando il valore visionario dei suoi romanzi. Lo psichiatra svizzero cita due volte Il Golem nella seconda parte di Psicologia e Alchimia, sezione dedicata allo studio e all’interpretazione dei sogni; Jung si sofferma, una prima volta, su un modello di sogno ricorrente, lo scambio di cappello tra due persone in società. Questo tema è all’origine del Golem, in cui il protagonista, nel Duomo di Praga, scambia inavvertitamente il proprio cappello con quello di un altro uomo, un certo Athanasius Pernath, intagliatore di pietre, e ne rivive la vita. Jung cita una seconda volta il romanzo dello scrittore austriaco riguardo un altro sogno che si ritrova come episodio onirico nell’intreccio narrativo del Golem: l’offerta di monete d’oro da parte di una persona e il rifiuto del sognatore a prenderle. Nel romanzo il protagonista rifiuta l’offerta di “grani” da parte di un “orribile” essere incappucciato, colpendogli la mano e facendo cadere in terra i grani; verso la fine del racconto Athanasius scoprirà il senso dell’incontro con quella creatura. I grani rappresentano le forze magiche; rifiutandoli e facendoli rotolare sul pavimento il protagonista arresta il tempo della “germinazione” delle forze magiche che “sonnecchiano” in lui e che verranno “custodite” dai suoi progenitori: «l’anima non è nulla di ‘singolo’– ha da diventarlo, e ciò si chiama “immortalità”» L’anima di ogni uomo si compone di molti “io” ereditati dai propri avi, così che un adepto, ricevendo le forze magiche dai propri antenati, porta a compimento il processo di iniziazione cominciato dai progenitori; questo tema è ripreso e completato nel Domenicano Bianco.
Il simbolismo del Golem, come di tutte le altre opere di Meyrink, è straordinariamente complesso e intreccia a motivi onirici e fantastici, insegnamenti esoterici che non possono assolutamente essere ridotti soltanto all’analisi junghiana dell’inconscio.