È morto tra le macerie del suo sogno politico, della sua utopia fatta di sangue e resistenza.
Del sangue della rivoluzione, delle guerre, degli omicidi “politici”.
Della resistenza al capitalismo occidentale, all’integralismo islamico, ai complotti della CIA, ai missili francesi, al modello di democrazia Made in U.S.A.
Il Colonnello Muhammar Gheddafi è rimasto fedele fino all’ultimo a quel personaggio shakesperiano che si era cucito addosso: ci sono voluti dei giovani ribelli per gettare nella polvere un quarantennio di storia, senza il rispetto che una vita umana dovrebbe comunque avere, senza la deferenza che perfino noi gli attribuivamo alla vigilia del conflitto.
Perché nel bene e nel male quell’uomo preso a calci e ucciso con un colpo alla tempia sinistra è stato uno dei protagonisti assoluti della storia del XX secolo. Neppure il disprezzo dimostrato dagli uccisori ha intaccato la figura del combattente che non è scappato con la cassa o si è travestito da straniero per fuggire all’estero: nessun cappotto ha mascherato il raiss, che ha preferito farsi uccidere piuttosto che lasciare il suo Paese. Ma noi occidentali con una memoria sempre troppo breve – Frattini fino a qualche mese fa indicava la Libia come un modello da seguire per i Paesi Africani – abbiamo negato al dittatore il processo che meritava, forse per mettere a tacere la sua verità. Abbiamo delegato dei combattenti a ucciderlo e deriderne la salma per non macchiarci le mani di altro sangue. Perché se la storia la scrivono i vincenti, non c’è spazio per personaggi scomodi come il Colonnello: si preferisca lasciar vivere umenicchi farseschi e senza midollo come i vari Mubarack o Ben Alì, la cui ingordigia si è dimostrata all’altezza solo della loro viltà.
Ora rimane lo spazio vuoto lasciato dall’ennesimo conflitto voluto dall’imperialismo europeo e benedetto da quello americano. Alle soglie delle Presidenziali, Obama può vantarsi di aver fatto tagliare la testa al Serpente (Osama bin Laden) e di aver fatto eliminare fisicamente Gheddafi in quella che solo un Premio Nobel per la Pace può definire una “non guerra”: un conflitto che è durato mesi, ha portato a un governo di transizione di cui sappiamo poco o nulla, a nuovi appalti per la ricostruzione di un Paese in ginocchio, a nuovi contratti per il petrolio libico, alla privatizzazione della Banca libica che sotto Gheddafi era pubblica e imprestava soldi per la costruzione di infrastrutture senza interesse... In breve, una “non guerra” fatta di sangue, morti, polvere, bombardamenti e distruzione che ora apre le danze alla guerra civile che squasserà la Libia ma che ha riallineato il Paese alla politica di dominio occidentale.
Se Gheddafi con il suo terzomondismo è stato anche un dittatore sanguinario, il modello americano di democrazia “da esportazione” - che da Paese “civile” punisce ancora chi lo “merita” con la pena di morte – è dovuto ricorrere per l’ennesima volta alla violenza per detronizzare un ex alleato.
Stupisce che nel giro di un paio di giorni ci si sconvolga se le manifestazioni di protesta di piazza degenerano in violenza – anche se evidentemente pilotate per poter attuare un giro di vite sul controllo pubblico, vedasi la proposta della Legge Reale - mentre si acclama la morte di un dittatore – ma sempre un uomo si tratta – preso a calci durante l’agonia.
Se è vero che la storia è scritta dai vincenti, la violenza dovrebbe essere condannata sempre, non accettata se chi la commette si presenta come “democratico”, sebbene all’attivo abbia due conflitti in corso, un terzo in Libia, appunto, e l’uccisione senza corpo dello Sceicco del Terrore. Non è che gli americani, o noi europei in generali siamo molto più “civili” del defunto raiss. Per vendicare un presunto attentato andiamo a bombardare Paesi che a male sapremmo indicare su un mappamondo, abbassando lo sguardo davanti alle immagini dei bombardamenti, delle città ridotte alla polvere, dei civili affamati o brutalmente scambiati per bersagli militari. Il nostro senso di solidarietà si scompone solo per sconvolgerci e imbastire funerali di Stato se un nostro militare muore in un attentato, per poi tornare in quel limbo di indifferenza che contraddistingue le giornate dell’occidentale medio che della guerra in Iraq, in Aghanistan o in Libia non ha tempo né voglia di sentir parlare.
Almeno nel caso di Gheddafi non ci sarà nessuna Antigone a cercarne il corpo, nessun complottista a dubitare della morte. Le immagini dello strazio del cadavere hanno fatto il giro del mondo. Dopo la sorpresa per la fine improvvisa di un pezzo di storia, le lacrime o gli applausi dovrebbero scemare per lasciare spazio all’eco delle notizie sul futuro del Paese.
Sempre che la storia anche in questo caso non venga riscritta dal più forte. In ogni caso la storia ci troverà indaffarati per cogliere le discromie che la censura di Stato impone alle future generazioni.
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