mercoledì 12 giugno 2002

VITA, PRODIGI E INSEGNAMENTI OCCULTI DI JOHANN TRITEMIUS

di Enrica Perucchietti


Tra i personaggi più celebri dell’occultismo rinascimentale spicca la figura dell’abate di Sponheim Giovanni Tritemio (1462-1516), amico e maestro del più famoso filosofo e alchimista Enrico Cornelio Agrippa e dello scienziato esperto di arti occulte Paracelso. La fama di Tritemio è dovuta in primo luogo a una sua opera di magia applicata o operativa, Steganographia, attorno alla quale nacquero presto dicerie e leggende e che divenne da subito un vero e proprio classico dell’occultismo. Tritemio compose il celebre trattato di magia operativa intorno al 1499. Bruciato dalla Chiesa fu stampato a Francoforte solo nel 1606 ma versioni manoscritte dell’opera circolarono per tutto il xvi secolo. Si tramanda che il trattato originale, distrutto dalla censura ecclesiastica, contenesse il segreto per comunicare a qualunque distanza senza l’ausilio di lettere o messaggeri, attraverso una forma di telepatia. Ma si è anche ipotizzato che la versione che iniziò a circolare in segreto in forma manoscritta non fosse la trascrizione esatta dell’originale. Supponendo che ci siano stati errori nella lettura e nella copiatura, il testo giunto sino a noi non sarebbe lo stesso bruciato dall’indice ecclesiastico.


La vita
Tritemio nacque il primo febbraio del 1462 a Tritenheim, nella contea di Treviri, in Germania. Il suo vero nome era Johann Heidenberg, figlio di un cavaliere e di una giovane aristocratica. Il padre morì quando il piccolo Johann non aveva ancora compiuto due anni. La madre, ricca proprietaria terriera si risposò dopo sette anni di vedovanza. Il nuovo patrigno si rivelò presto essere un uomo tirannico e rozzo, che impedì al ragazzo di studiare nonostante le sue eccezionali doti intellettuali. Johann si allontanava spesso di notte da casa per andare da un vicino che gli insegnò a leggere e scrivere. Accortosi che il patrigno non gli avrebbe mai consentito di formarsi l’educazione che desiderava, Johann abbandonò Tritenheim dirigendosi verso Wurzburg, dove ebbe modo di riparare presso la scuola di un noto umanista, Jacob Wimpheling. In brevissimo tempo imparò il latino intraprendendo gli studi classici. Nel 1479 si trasferì a Heidelberg, famoso centro culturale tedesco, dove dimostrò di possedere una ferrea volontà e un’incredibile memoria studiando giorno e notte per recuperare il tempo perduto. Imparò perfettamente il latino, il greco e l’ebraico, quest’ultimo fondamentale per gli studi cabalistici che stavano tornando di moda grazie soprattutto ai filosofi italiani quali Giovanni Pico della Mirandola. Formatosi un’invidiabile culturale umanistica, la tradizione narra un incontro che gli avrebbe cambiato la vita: intorno al 1479 conobbe un “Maestro”, un adepto dei Rosacroce che lo iniziò ai segreti dell’Arte alchemica. Fu allora che Johann assunse, in ricordo del paese natale, lo pseudonimo di Trithemius. Nel 1483 decise di far ritorno a casa per trovare la madre. Al momento della partenza il “Maestro” lo salutò avvertendolo che avrebbe trovato la “chiave” della sua vita lungo la strada… Il destino tesseva le fila della sua vita, come l’adepto rosacruciano gli aveva predetto.


L’Abate Tritemio
Durante il viaggio di ritorno, un’improvvisa tormenta di neve costrinse il giovane a riparare presso il monastero benedettino di Sponheim. Appena varcata la soglia si accorse che il suo destino si stava compiendo. Non sarebbe tornato a Tritenheim. L’asilo presso il monastero diventò ospitalità, l’ospitalità noviziato. Tritemio chiese di essere accolto nell’Ordine e dopo due anni pronunciò i voti solenni giurando fedeltà alla Regola benedettina. Il celebre mago e occultista ottocentesco Eliphas Levi descrisse nella sua Storia della Magia Tritemio come “il più grande mago dogmatico” dell’epoca, “un abate dell’ordine di San Benedetto di ortodossia irreprensibile e di ottima condotta”. La sincera fedeltà e devozione alla fede cristiana di Tritemio sono note. Ad appena 22 anni, alla morte dell’Abate, fu scelto proprio lui, giovanissimo e ultimo arrivato, a reggere e amministrare il monastero. Il compito non fu facile. Tritemio si rese subito conto che l’abbazia era sull’orlo della crisi finanziaria: i muri cadevano sgretolandosi a causa dell’incuria e sotto il peso degli anni, e il monastero stava per essere schiacciato da una montagna di debiti. I monaci avevano tradito la Regola per crogiolarsi nell’ozio, nell’indifferenza e nell’arbitrio. L’elezione di Tritemio fu una vera e propria benedizione per la comunità benedettina. Egli risvegliò i confratelli dal torpore in cui erano caduti scotendoli dalla pigrizia e dall’ignoranza di cui erano preda. Nel giro di pochi anni ristabilì il dissestato bilancio economico, rimise in sesto i muri dell’abbazia e risvegliò le coscienze degli indolenti monaci, facendone colti trascrittori di antichi codici. Il monastero di Sponheim si affermò presto in tutta Europa per la sua immensa biblioteca i cui volumi erano stati raccolti, copiati e miniati a mano dai monaci.


La fama di mago
Presto iniziarono a diffondersi dicerie sul giovane Abate. Molti lo giudicavano un santo, un uomo straordinario che aveva riportato alla luce il dissestato monastero, altri, un mago. Ma il noto interesse per l’ermetismo non sembrava soltanto teorico. La vastissima cultura di Tritemio nel campo delle scienze occulte sfociò anche nella magia pratica. Le cronache narrano di apparizioni, evocazioni, fenomeni paranormali. Tritemio era in grado di predire il futuro, di evocare gli spiriti, di dialogare con le ombre dei defunti, di produrre fenomeni fisici attraverso incantesimi. In pochi anni la sua fama di mago si diffuse e personaggi illustri si recavano da lui per consulti o insegnamenti. La storia ci ha tramandato i nomi dei suoi due più celebri discepoli: Cornelio Agrippa e Paracelso. L’iniziazione rosacrociana gli aveva tramandato riti e pratiche antiche: “magia naturale”, simboli astrologici, formule evocatorie, nomi angelici, Cabala, rientravano tutti nelle competenze dell’Abate. La fama delle sue straordinarie capacità e dei prodigi magici da lui compiuti giunsero fino all’imperatore Massimiliano, il quale, avendo da poco perso l’adorata moglie, fece chiamare Tritemio a corte per chiedergli un consulto sulla necessità o meno di risposarsi come suggerito dai suoi consiglieri. Giunto a corte e ascoltate le richieste del sovrano, Tritemio gli suggerì di ascoltare le parole dell’imperatrice Maria, la defunta moglie di Massimiliano. Questi, sbalordito, esclamò che non era possibile in quanto era morta. Tritemio con tranquillità replicò che l’avrebbero richiamata dal regno dei morti. Dopo aver tracciato per terra un pentacolo di evocazione magica e dopo aver pronunciato le apposite formule, apparve lo spirito della defunta sovrana, splendente in un alone di luce. Lo spettro predisse all’imperatore che avrebbe sposato una giovane fanciulla di Milano ma non ebbe modo di concludere la predizione che il marito crollò a terra svenuto per lo spavento. Riavutosi dall’emozione, sposò la figlia del defunto Galeazzo Sforza, duca di Milano, affidata alla tutela dello zio Ludovico il Moro.

La solitudine volontaria
La dura disciplina imposta da Tritemio iniziò a causare disaccordi tra i monaci di Sponheim che, nel 1506, approfittarono dell’assenza dell’Abate per ribellarsi. Insorti, i monaci deposero Tritemio dalla carica di Abate nominando uno di loro. Venuto a conoscenza della sommossa, Tritemio scelse di non far ritorno al monastero per non acuire le contestazioni e si ritirò volontariamente in solitudine a Wurzburg presso l’abbazia di San Giacomo dove trascorse gli ultimi dieci anni della sua vita, alternando la stesura dei manoscritti alla meditazione. Morì il 15 dicembre del 1516.


Steganographia
Come spiegato da Eliphas Levi, Tritemio, forse per non incorrere nella censura ecclesiastica, non scrisse “apertamente” sulle scienze occulte, come invece avrebbe fatto uno dei suoi discepoli più famosi, Cornelio Agrippa. Tutte le opere di Tritemio sulla magia “girano attorno all’arte di tenere nascosti i misteri”. Con i suoi trattati Steganographia, Clavis Steganographiae e Polygraphiae libri sex, Tritemio gettò infatti le basi della moderna scienza della steganografia. Egli elaborò 40 sistemi principali e 10 sottosistemi secondari ricorrendo a combinazioni di acronimi e utilizzando dischi rotanti basati sulla tecnica della sostituzione monoalfabetica già usata da Giulio Cesare nella trasmissione di informazioni belliche a Cicerone e documentata nel De bello gallico. Lo scopo di Tritemio era di nascondere un testo segreto nelle trame di un messaggio di copertura, senza il bisogno di ricorrere alle tecniche fisiche di origine greca come la rasatura dei capelli. Lo stesso abate definì lo scopo della steganografia come «l’arte del far conoscere a chi è lontano, per mezzo di scrittura occulta, la volontà del proprio animo». Unica premessa per l’efficacia dell’artificio era che il mittente e il destinatario possedessero le chiavi del medesimo sistema di occultamento, per estrarre il reale significato del messaggio. La Steganographia voleva essere al contempo un’opera di criptografia e di scrittura cifrata, ma anche un trattato di magia angelica di stampo cabalistico. Divisa in tre libri, il primo era diretto all’invocazione degli angeli che presiedono al controllo delle diverse parti della Terra (o distretti); il secondo illustrava gli angeli del tempo, che regolano le ore del giorno e della notte; il terzo era dedicato ai sette angeli, superiori ai precedenti colleghi angelici, che controllano i sette pianeti. Lo scopo dell’autore era di servirsi della rete angelica per trasmettere messaggi a distanza attraverso metodi fino ad allora sconosciuti, senza utilizzare le tecniche tradizionali dell’epoca e per conseguire la conoscenza “di tutto ciò che accade nel mondo”. Prevenendo il rischio che le informazioni potessero cadere in mani sbagliate le frammentò, disseminandole all’interno delle tre parti dell’opera. Ogni invocazione angelica inizia con il nome dello spirito da invocare e segue con formule all’apparenza astratte, banali o insignificanti che nascondono in realtà il nucleo della formula evocatoria. Il valore tecnico dell’opera è molto complesso perché alterna informazioni sulla magia cabalistica a complessi calcoli matematici, sia in rapporto al valore numerico dei nomi angelici calcolato sulla base della gematriah, sia di carattere astrologico. Possessore di una copia di Steganographia e conoscitore della summa magica di Agrippa, queste tecniche furono utilizzate e perfezionate da John Dee ed Edward Kelley nei rituali di evocazioni angeliche, finendo per divenire dei veri e propri classici della letteratura occultistica. Ma non solo. Anche Giordano Bruno si servì dell’opera di Tritemio per colmare la propria lacuna linguistica in fatto di ebraico. Così nelle proprie ricerche e opere magiche, avendo solo una superficiale conoscenza dell’ebraico, fece continui riferimenti, seppur impliciti, alla Steganographia e alla Philosophia occulta di Agrippa.


Pentacoli ed evocazioni spiritiche
Nel terzo capitolo del Rituale dell’Alta Magia, Eliphas Levi parla di Tritemio spiegando che nella Steganographia illustrò “il segreto degli scongiuri e delle evocazioni in maniera filosofica e naturale”, giudicata da Levi forse “troppo semplice e troppo facile”. Per Tritemio evocare uno spirito “significa entrare nel pensiero dominante di questo spirito e, se sulla stessa linea ci eleviamo più in alto, trascineremo con noi questo spirito ed egli ci servirà. In caso contrario sarà lui a trascinarci nel suo cerchio e saremo noi a servirlo. Scongiurare significa opporre a uno spirito isolato la resistenza di una corrente o catena: cum iurare, giurare assieme, cioè fare un atto di fede comune. Più questa fede sarà entusiastica e potente e più lo scongiuro avrà efficacia”. Per questo sono necessari i pentacoli e i cerchi di protezione tracciati intorno al mago durante l’operazione, dai quale non deve uscire se non vuole perdere il potere o peggio rischiare la vita. Ed è anche per la pericolosità di questi rituali che la magia, così come l’alchimia, ha prediletto un linguaggio oscuro, “ermetico”, per farsi comprendere dagli iniziati e per confondere e allontanare gli stolti.

mercoledì 22 maggio 2002

PICO DELLA MIRANDOLA E LA TRADIZIONE MAGICO-ERMETICA

di Enrica Perucchietti

«“Grande miracolo è l’uomo, o Asclepio” […] [Dio] stabilì che a colui, cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune tutto ciò che singolarmente aveva assegnato agli altri. Accolse perciò l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel tuo posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai […] ottenga e conservi […] Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti, tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine”». Questa citazione è tratta dal manifesto dell’Umanesimo, L’orazione sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico della Mirandola. Divenuto uno dei testi emblematici dell’Umanesimo, ricollegandosi esplicitamente al Corpus Hermeticum, esso verte sul significato metafisico e morale dell’uomo come “grande miracolo”. Tutte le creature sono state create da Dio come ontologicamente determinate, con uno scopo e una forma peculiari. L’uomo, invece, giunto ultimo nella creazione, è stato posto al confine dei due mondi, terreno e ultraterreno, in modo da essere egli stesso padrone del proprio destino, plasmando la propria natura secondo le forme di vita moralmente prescelta. La grandezza dell’uomo consiste nella propria indeterminatezza, nell’essere stato creato da Dio come libero artefice di se stesso. Potrà innalzarsi fino al cielo o degenerare al di sotto del livello animale. Nell’uomo Dio ha riposto tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri: i semi di ogni specie di vita, vegetali, animali, razionali e intellettuali. Se saranno coltivati i primi, l’uomo sarà pianta, se svilupperà quelli sensibili, sarà bestia; se razionali diventerà animale celeste, se, infine, avrà coltivato quelli intellettuali, ascenderà allo stato di “angelo e figlio di Dio”. In questo celebre discorso Pico presenta tutti i temi della sua magia; l’orazione si apre infatti con le parole che Ermete Trismegisto rivolge ad Asclepio, collocandosi esplicitamente nel contesto della magia ermetica. Alla dottrina dell’uomo-microcosmo fautore del proprio destino, si collega uno dei maggiori punti di rilievo della filosofia pichiana, la magia naturale (che riprende da Marsilio Ficino) e la cabala. L’uomo-mago di Pico, infatti, non è altri che il mago descritto nel Corpus Hermeticum.

La concordia filosofica
Convinto assertore della concordia di tutte le filosofie e religioni, nel 1485 Pico aveva deciso di organizzare a sue spese, a Roma, un grande convegno di dotti in cui avrebbe esposto le sue 900 tesi, Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae. Come introduzione vi appose l’orazione De hominis dignitate. Nel suo programma di pacificazione dottrinale, Pico intendeva dimostrare l’armonia tra sistemi differenti, conciliando Platone con Aristotele, Ermete Trismegisto e Tommaso d’Aquino, la filosofia scolastica latina con quella araba, la cabala ebraica e il cristianesimo. Sostenitore dell’unicità della verità, Pico credeva che tutte le scuole e i pensatori avessero in realtà espresso soltanto un aspetto della realtà. Ma, alcune di queste tesi furono giudicate eretiche e condannate dalla Chiesa. Pico le difese nel 1487 nella sua Apologia, ma inutilmente. Subì una serie di disavventure, imprigionato durante la fuga in Francia, liberato per intervento di Lorenzo il Magnifico, infine perdonato da Papa Alessandro VI nel 1493. Tra le 900 tesi vi sono 26 conclusiones magicae, che vertono sia sulla magia naturale che su quella cabalistica.

Magia naturale e magia demonica
La meditazione pichiana contentuta nell’Oratio ripropone tutti i temi delle sue opere: la magia è di due specie, naturale e demonica. Solo la prima è buona e “lecita” perché opera tramite la “simpatia”, ossia i legami spirituali che uniscono tutte le cose. Lo scopo della magia naturale è di sposare “la terra al cielo, cioè le forze delle cose inferiori alle proprietà di quelle superiori”. Praticare la magia, per Pico, “non è altro che maritare il mondo”, riformulando il tema centrale dell’alchimia: le nozze mistiche dei metalli. La vita e la sessualità costituivano un carattere universale del reale. Dall’antichissima alchimia indiana, cinese e babilonese, fino a quella medievale, la vita dei metalli, delle pietre e degli oggetti inanimati non si riduceva a una dinamica misteriosa o animista: la vita cosmica era organizzata come quella degli uomini, conosceva la nascita, la sessualità, la sofferenza e la morte. L’idea alchemica di “combinazione” e “matrimonio” sopravvisse nella magia del Medioevo e del Rinascimento: il mondo, in tutti i suoi livelli, è governato dalla medesima legge di vita, ovvero nascita, amore, sessualità, tortura e morte. Ma, la magia naturale già propugnata da Ficino non è in grado di consentire risultati davvero efficaci, perché non fa ricorso alle forze superiori, limitandosi all’uso di amuleti, talismani, simboli magici. Essa ha pertanto bisogno del completamento della magia cabalistica, ossia del ramo operativo della cabala ebraico-cristiana. Per magia naturale Pico intende l’istituzione di legami fra terra e cielo mediante l’uso di sostanze naturali, secondo i precetti della magia simpatica (che avrà il suo culmine nel panpsichismo universale di Tommaso Campanella). La magia simpatica attribuisce alla realtà forze e attività proprie dell’anima, ossia simpatie naturali che il mago può utilizzare e legare a suo piacimento, unendo e sposando le cose della terra a quelle del cielo mediante l’uso di virtutes naturales. Ma per influire sui vari livelli della realtà, la magia naturale deve ricorrere anche a figure simboliche, immagini astrali, caratteri magici impressi in un talismano, rese efficaci dallo spiritus naturale, dall’anima del mondo. Sono proprio i segni magici ad avere efficacia magica, e non il ricorso a sostanze naturali. Nell’ambito di questa magia Pico esalta l’efficacia degli “Inni di Orfeo”, che si devono eseguire con “la musica adatta” e “un’opportuna disposizione dell’animo”. Sebbene gli incantesimi orfici si basino sull’invocazione di nomi di dèi, essi non sono in alcun modo di carattere demonico: “i nomi degli dèi cantati da Orfeo non sono nomi di demoni ingannatori […] ma sono nomi di virtù naturali e divine, distribuite per tutto il mondo dal vero Dio a gran vantaggio dell’uomo, se questi sa servirsene”. Vi è invece una magia cattiva, giustamente proibita dalla Chiesa, opera del demonio e delle tenebre, condannata esplicitamente da Pico nelle sue conclusiones, così come era già stata rigettata da Marsilio Ficino. Bisognerà aspettare l’abate Tritemio, Cornelio Agrippa e John Dee per conoscerne i procedimenti.


La cabala pratica
Ma la magia naturale, compresi gli Inni orfici, senza il ricorso alla cabala, è inoffensiva quanto inefficace. Anche in questo caso Pico distingue due specie di cabala, una teorica, di carattere mistico, l’altra pratica, da intendersi come “la parte suprema della magia naturale”. Per quanto la cabala sia una dottrina mistico-esoterica, speculativa, avente come scopo la conoscenza di Dio attraverso una serie complessa di interpretazioni allegoriche e numeriche delle Scritture, ad essa è collegata anche un’attività magica. La cabala congiunge due aspetti: uno teorico-dottrinale di stampo mistico, l’altro pratico magico che si sviluppa sia in una forma di autoipnosi volta a realizzare su di sé la contemplazione, sia in forma magico-operativa, che si basa sull’alchimia delle lettere, ossia sul potere sacro della lingua ebraica e su quello proveniente dall’invocazione ebraica degli angeli (sia buoni che perversi), nonché delle sefirot, i dieci nomi indicanti i poteri e gli attributi di Dio. I cabalisti elaborarono infatti molti nomi angelici, sconosciuti alle Scritture, a cui attribuirono grande efficacia. Convinto del potere delle lettere e dei nomi ebraici, Pico studiò intensamente la lingua ebraica, divenendone uno dei migliori conoscitori rinascimentali. L’alfabeto ebraico, per il cabalista, riflette la natura spirituale del mondo e il linguaggio creativo di Dio. Avvalendosi della gematriah, ossia dell’interpretazione delle lettere attraverso il loro valore numerico, il cabalista è in grado di desumere dal testo biblico innumerevoli e insospettati significati che nascono dalla sostituzione di parole con altre aventi lo stesso valore numerico. Pico credeva inoltre che la cabala risalisse alla più antica tradizione, addirittura a Mosè, che l’avrebbe tramandata oralmente sotto forma iniziatica ad alcuni eletti, inaugurando una credenza che avrebbe avuto il suo culmine ideologico nella magia cabalistica ottocentesca di Eliphas Levi. Nell’Apologia Pico ha spiegato la suddivisone della cabala in due rami, distinguendo tra una scienza speculativa e una operativa. La prima, definita “filosofia cattolica”, è una tecnica di combinazione delle lettere costituita da alfabeti rotanti, identificabile con l’ars combinandi di Raimondo Lullo, ma risalente probabilmente al mistico Abraham Abu’l-‘Afiya. La seconda scienza cabalistica, definita come “la parte suprema della magia naturale”, riguarda una tecnica che utilizza i poteri di quelle sfere sovracelesti che sono al di sopra della luna, metodo connesso alle tecniche della magia naturale ma ad essa superiore. La magia naturale si avvale delle stelle, mentre la cabala pratica si rivolge a una dimensione trascendente, rivolgendosi direttamente a Dio. In uno stato di estraniamento mistico in cui l’anima intellettuale si separa dal corpo, il cabalista può comunicare con Dio attraverso la mediazione degli arcangeli. Il pericolo è che l’intensità dell’esperienza estatica conduca alla morte corporale, detta la “morte del bacio” (secondo una leggenda ebraica a Mosè, che, non riuscendo ad accettare la punizione divina che gli avrebbe impedito di entrare nella Terra Promessa, si rifiutava di morire sul monte Nebo, Dio strappò l’anima con un bacio, discendendo su di lui). Al contempo i procedimenti della cabala pratica sono di due tipi, così come avviene per la magia bianca e nera. Vi è una forma perversa, degenere di cabala rapportabile alla negromanzia. Questa falsa cabala è praticata da coloro che invocano i demoni, con l’intento di acquisire un potere del mondo sovraceleste per scopi perversi. L’unica differenza di metodo tra la cabala buona e quella demoniaca è il fine. I fautori della prima invocano, oltre ai nomi segreti di Dio, soltanto i nomi degli angeli buoni, rifiutando il ricorso alle evocazioni demoniache. Pico credeva inoltre che l’inefficacia della magia propugnata da Ficino fosse il mancato ricorso a formule in lingua ebraica. Nessuna operazione magica può fare a meno dell’apporto della cabala, e, dunque, del potere sacro della lingua ebraica. Ma nessuno deve praticare le operazioni cabalistiche se non dopo essersi adeguatamente purificato, per non incorrere nell’invocazione dei demoni e per non finire “divorati” dal terribile angelo del male, Azazel. Così come avviene per la magia naturale, per lo yoga e per l’alchimia (soprattutto quella tantrica indiana), l’adepto deve premunirsi dai pericoli demoniaci, adempiendo a ferree regole di purificazione rituale. La magia cabalistica di Pico sarebbe stata ripresa e spiegata prima da Johannes Reuchlin nel suo De arte cabalistica, poi, ampliata e ricodificata nella magia angelica di Johannes Tritemio e Agrippa di Nettesheim, sistema che sarebbe stato adottato da John Dee ed Edward Kelley senza più la distinzione tra pratiche bianche e nere, unendo e confondendo le operazioni alchemiche alle evocazioni spiritiche e alla negromanzia. Con Dee e Kelley si segna il passaggio dallo studio puramente speculativo delle arti occulte alla pratica della magia angelica enochiana che vedrà il proprio culmine nella fioritura delle operazioni magiche della Golden Dawn.