CONTROINFORMAZIONE

PRIMARIE USA:
LE LOBBY CENSURANO RON PAUL
di Enrica Perucchietti

Il 14 dicembre 2007 il giornalista investigativo, ex agente KGB, Daniel Estulin rivelò di essere stato messo al corrente, da fonti interne ai servizi segreti statunitensi, dell’esistenza di un piano per eliminare il candidato repubblicano Ron Paul. Estulin spiegò che l’esponente della Destra Libertaria si stava spingendo troppo oltre, rischiando di diventare una vera e propria minaccia per i Gruppi di potere americani.
Le rivelazioni pubbliche di Estulin, diffuse a mezzo radio da Alex Jones, salvarono forse la vita a Paul che dopo la candidatura del 1988 tornava  in quei mesi alla ribalta: un “incidente” non sarebbe certo potuto passare inosservato. Se le rivelazioni di Estulin erano vere, siamo tenuti a credere che le lobby siano state costrette a cambiare strategia, adottando un atteggiamento di censura che ha raggiunto il suo apice con l’esclusione da parte di Fox News di Paul dal dibattito tra i candidati che si tenne il 6 gennaio 2008, nonostante egli fosse dato come uno dei protagonisti delle primarie in New Hampshire che si sarebbero tenute due giorni dopo. L’apice delle macchinazioni mediatiche però avvenne il 19 gennaio durante gli scrutini dei caucus in Nevada, dove Paul era riuscito a sorpresa ad affermarsi secondo con il 14% dei voti: la Fox, ancora una volta, nella grafica riassuntiva delle posizioni tralasciò di inserire il nome e la percentuale raggiunta da Paul, inserendo invece Mike Huckabee che si era affermato al quarto posto con l’8%. Voci di frodi si sono poi susseguite in Iowa e in altre contee del New Hampshire, dimostrando come il sistema si stava opponendo con tutti i mezzi alla candidatura di Paul.
La censura incontrata nel 2008 si sta ripresentando ora in merito alle nuove primarie che dovranno decidere quale sarà il candidato repubblicano che affronterà l’uscente Presidente Obama alle elezioni presidenziali del 6 novembre prossimo.
Chi non conosce Paul si starà chiedendo per quale motivo le lobby americane dovrebbero osteggiare il candidato repubblicano, che lo stesso McCain definì come «l’uomo più onesto del Congresso».
Medico ginecologo, classe 1935, Paul si è meritato diversi appellativi tra cui Dr. No, Mr. No e Campione della Costituzione per la sua battaglia a difesa dello spirito originario della Costituzione.
Oppositore dei Neocon, Paul appartiene alla corrente libertariana del partito repubblicano: è fautore del ripristino del sistema aureo e dell’abolizione della Federal Reserve, da lui considerata un organo incostituzionale; è propenso a un totale libero mercato, a una bassa, quasi nulla tassazione sul reddito e al taglio radicale delle spese militare.
Paul, infatti, è la nemesi dei vari Reagan, Clinton, Bush od Obama che si sono succeduti negli ultimi decenni, legati a Wall Street, alla massoneria, CIA, trilaterale, Bilderberg: è un non interventista e vorrebbe il ritiro immediato di tutte le truppe americano dal Medio Oriente e dall’Europa (compresa la fine dell’embargo su Cuba). Come se non bastasse è contrario alla pena di morte, ai provvedimenti di restrizione della privacy introdotti da George W. Bush e confermati da Obama, come il Patriot Act, e propone il ridimensionamento dell’FBI e della CIA.
A differenza di Obama che presentatosi sulle scene mondiali come un outsider della politica, un Messia multietnico che avrebbero racimolato finanziamenti via internet ma è stato invece sostenuto dalle lobby di Wall Street e dalla CIA, le campagne elettorali di Paul si sono davvero sviluppate tramite il web, tanto da aver spinto alcuni a dichiarare che «internet found Ron Paul». Per quanto sia diventato ormai un paladino dei diritti, la battaglia contro un Obama, che nella passata campagna elettorale spese 180 milioni $ soltanto in inserzioni pubblicitarie, è improba.
All’opposto della dottrina espansionistica Bush-Cheney, Paul vorrebbe riportare a casa tutte le truppe, dimostrandosi quel pacifista che Obama ha rivelato in breve tempo di non essere, tanto che il suo Premio Nobel alla Pace è stato messo in discussione con un’inchiesta che intende verificare eventuali pressioni sulla Giuria. Pressioni che porterebbero il marchio di quei Gruppi di potere che non possono permettere di veder affermarsi un politico integerrimo che, come Lincoln prima e JFK poi, si spingerebbe addirittura a eliminare la Federal Reserve e a ripristinare quel decreto presidenziale 11110 che riportando la parità aurea e facendo stampare direttamente dal Dipartimento del Tesoro la moneta, manderebbe in fumo i guadagni criminali provenienti dal signoraggio bancario che incide sul deficit pubblico che pesa sugli USA come una spada di Damocle e che, secondo la visione geopolitica del mentore di Obama, Zbigniew Brezezinski, impone che l’impero americano continui a espandersi per poter sopravvivere.


UCCISO UNO DEI PROTAGONISTI ASSOLUTI DELLA STORIA DEL XX SECOLO.
LA MORTE DI GHEDDAFI
di Enrica Perucchietti 

È morto tra le macerie del suo sogno politico, della sua utopia fatta di sangue e resistenza.
Del sangue della rivoluzione, delle guerre, degli omicidi “politici”.
Della resistenza al capitalismo occidentale, all’integralismo islamico, ai complotti della CIA, ai missili francesi, al modello di democrazia Made in U.S.A.
Il Colonnello Muhammar Gheddafi è rimasto fedele fino all’ultimo a quel personaggio shakesperiano che si era cucito addosso: ci sono voluti dei giovani ribelli per gettare nella polvere un quarantennio di storia, senza il rispetto che una vita umana dovrebbe comunque avere, senza la deferenza che perfino noi gli attribuivamo alla vigilia del conflitto.
Perché nel bene e nel male quell’uomo preso a calci e ucciso con un colpo alla tempia sinistra è stato uno dei protagonisti assoluti della storia del XX secolo. Neppure il disprezzo dimostrato dagli uccisori ha intaccato la figura del combattente che non è scappato con la cassa o si è travestito da straniero per fuggire all’estero: nessun cappotto ha mascherato il raiss, che ha preferito farsi uccidere piuttosto che lasciare il suo Paese. Ma noi occidentali con una memoria sempre troppo breve – Frattini fino a qualche mese fa indicava la Libia come un modello da seguire per i Paesi Africani – abbiamo negato al dittatore il processo che meritava, forse per mettere a tacere la sua verità. Abbiamo delegato dei combattenti a ucciderlo e deriderne la salma per non macchiarci le mani di altro sangue. Perché se la storia la scrivono i vincenti, non c’è spazio per personaggi scomodi come il Colonnello: si preferisca lasciar vivere umenicchi farseschi e senza midollo come i vari Mubarack o Ben Alì, la cui ingordigia si è dimostrata all’altezza solo della loro viltà.
Ora rimane lo spazio vuoto lasciato dall’ennesimo conflitto voluto dall’imperialismo europeo e benedetto da quello americano. Alle soglie delle Presidenziali, Obama può vantarsi di aver fatto tagliare la testa al Serpente (Osama bin Laden) e di aver fatto eliminare fisicamente Gheddafi in quella che solo un Premio Nobel per la Pace può definire una “non guerra”: un conflitto che è durato mesi, ha portato a un governo di transizione di cui sappiamo poco o nulla, a nuovi appalti per la ricostruzione di un Paese in ginocchio, a nuovi contratti per il petrolio libico, alla privatizzazione della Banca libica che sotto Gheddafi era pubblica e imprestava soldi per la costruzione di infrastrutture senza interesse... In breve, una “non guerra” fatta di sangue, morti, polvere, bombardamenti e distruzione che ora apre le danze alla guerra civile che squasserà la Libia ma che ha riallineato il Paese alla politica di dominio occidentale.
Se Gheddafi con il suo terzomondismo è stato anche un dittatore sanguinario, il modello americano di democrazia “da esportazione” - che da Paese “civile” punisce ancora chi lo “merita” con la pena di morte – è dovuto ricorrere per l’ennesima volta alla violenza per detronizzare un ex alleato.
Stupisce che nel giro di un paio di giorni ci si sconvolga se le manifestazioni di protesta di piazza degenerano in violenza – anche se evidentemente pilotate per poter attuare un giro di vite sul controllo pubblico, vedasi la proposta della Legge Reale -  mentre si acclama la morte di un dittatore – ma sempre un uomo si tratta – preso a calci durante l’agonia.
Se è vero che la storia è scritta dai vincenti, la violenza dovrebbe essere condannata sempre, non accettata se chi la commette si presenta come “democratico”, sebbene all’attivo abbia due conflitti in corso, un terzo in Libia, appunto, e l’uccisione senza corpo dello Sceicco del Terrore. Non è che gli americani, o noi europei in generali siamo molto più “civili” del defunto raiss. Per vendicare un presunto attentato andiamo a bombardare Paesi che a male sapremmo indicare su un mappamondo, abbassando lo sguardo davanti alle immagini dei bombardamenti, delle città ridotte alla polvere, dei civili affamati o brutalmente scambiati per bersagli militari. Il nostro senso di solidarietà si scompone solo per sconvolgerci e imbastire funerali di Stato se un nostro militare muore in un attentato, per poi tornare in quel limbo di indifferenza che contraddistingue le giornate dell’occidentale medio che della guerra in Iraq, in Aghanistan o in Libia non ha tempo né voglia di sentir parlare.  
Almeno nel caso di Gheddafi non ci sarà nessuna Antigone a cercarne il corpo, nessun complottista a dubitare della morte. Le immagini dello strazio del cadavere hanno fatto il giro del mondo. Dopo la sorpresa per la fine improvvisa di un pezzo di storia, le lacrime o gli applausi dovrebbero scemare per lasciare spazio all’eco delle notizie sul futuro del Paese.
Sempre che la storia anche in questo caso non venga riscritta dal più forte. In ogni caso la storia ci troverà indaffarati per cogliere le discromie che la censura di Stato impone alle future generazioni.

Fermo immagine: l’edificio che non poteva crollare ma collassò su se stesso senza essere stato colpito. Storia del WTC 7.
Di Enrica Perucchietti

Nel lungo elenco di anomalie che ha spinto giornalisti, fisici e ingegneri accreditati a dubitare della versione ufficiale sull’11/9, si staglia il caso del crollo dell’edificio 7. Il terzo grattacielo del World Trade Center non è mai stato colpito dai jet che, secondo la versione ufficiale, avrebbe causato il crollo delle Torri Gemelle. Eppure, crollò su se stesso alla velocità della caduta libera.
Se per ipotizzare una demolizione controllata nel caso delle due Torri si deve ricorrere alle dichiarazioni di numerosi testimoni che raccontarono di aver udito il rumore di esplosioni all’interno degli edifici e non si può ignorare la testimonianza di fisici e ingegneri che sostengono che fosse impossibile che il solo impatto degli aerei potesse polverizzare le travi d’acciaio costruite proprio per resistere a eventuali attacchi aerei, per l’edificio 7 non dobbiamo andare molto lontano.
Com’è possibile che un palazzo solidissimo, che disponeva di 24 colonne interne e 57 perimetrali, lontano 300 metri dalla Torre più vicina, sia crollato su se stesso, in modo ordinato e simmetrico, senza essere stato colpito?

La Commissione d’inchiesta non ha mai risposto all’enigma, semplicemente ignorandolo. Il rapporto non menzionò neppure il fatto che i vigili del fuoco furono evacuati dall’edificio 7 - dove era in corso un incendio al quarantasettesimo piano - molte ore di anticipo rispetto al collasso strutturale, nonostante si fosse diffusa la voce che sarebbe crollato. Insomma, si sapeva con largo anticipo che l’edificio, mai colpito dagli aerei, sarebbe crollato e i vigili sono stati evacuati. Lo stesso capitano dei vigili del fuoco ordinò l’evacuazione dei suoi uomini per evitare ulteriori morti… Ma come, era consapevole che stava per crollare? In base a quali informazioni?
A ciò dobbiamo aggiungere le numerose testimonianze sulle esplosioni come quella del reporter Peter De Marco citato nel saggio di Chris Bull e Sam Erman, At Ground Zero: Young Reporters Who werw There Thell Theri Stories, che dichiarò: «Alle 17.30 ci fu un boato. La fila di finestre dell’ultimo piano dell’edificio esplose. Poi andarono in frantumi i vetri del trentanovesimo piano. Poi dal trenotottesimo. Pop! Pop! Pop! Non si sentiva altro, finché l’edificio non sprofondò in una nube di grigio che saliva verso l’alto».
Ancora più incredibile il nastro audio che riporta la comunicazione radio di un uomo intrappolato nell’edificio che racconta come abbia fatto a uscire insieme a un suo collega. Troviamo il racconto in Zero, l’antologia curata da Giulietto Chiesa che comprende numerosi saggi sulla ricostruzione dell’11/9. Nel reportage del professore universitario e fisico Steven Jones, troviamo la prova di “un’enorme esplosione sotto l’ottavo piano”, nelle parole di uno dei due uomini intrappolati nel WTC 7: “[nella comunicazione radio] spiega che [lui e il suo collega] erano intrappolati all’ottavo piano, che c’era stata un’esplosione sotto di loro e che erano rimasti in trappola. L’esplosione aveva tagliato fuori ogni via di fuga […] poi l’uomo dice che i vigili del fuoco sono riusciti a passare e li hanno recuperati e fatti uscire dall’edificio 7 prima che crollasse”.

A questo riguardo diversi ricercatori sono giunti alla conclusione che per crollare l’edificio 7 fosse necessaria l’esistenza di cariche esplosive e incendiarie.
Come ha infatti rilevato dallo scienziato Steven Jones, le Torri e l’edificio 7 non sono crollate, “sono andate completamente distrutte […] A questo punto siamo in grado di calcolare la velocità di caduta degli edifici. Scopriamo che il tempo totale di caduta delle Torri si aggira intorno ai 10-14 secondi; mentre per quanto riguarda il WTC 7, il tempo di caduta dell’angolo sud occidentale è di 6,5 secondi. Quel giorno si scontrarono e registrarono molte altre osservazioni interessanti, tra cui la fuoriuscita di una sostanza arancione dalla Torre sud, qualche minuto prima del crollo”.

Fermandoci ora ad analizzare il caso del WTC 7, ancora Jones sostiene che 6,5 secondi - avvicinandosi al tempo di caduta libera - non è un tempo di caduta ragionevole per l’edificio 7, ma è comparabile ai tempi dei crolli nelle demolizioni controllate, ove, il tempo che il tetto impiega a cadere a terra si avvicina appunto al tempo della caduta libera. Mentre, senza ipotizzare la presenza di esplosivi, “la legge di conservazione del momento, il materiale sottostante al tetto – tra cui delle colonne d’acciaio intatte – dovrebbe rallentarne in maniera significativa lo spostamento”. Jones continua sottolineando che “sembra impossibile che questo edificio di 47 piani con intelaiatura in acciaio sia potuto collassate su se stesso in maniera rapida e simmetrica, e i presenza di incendi e danni sporadici”, arrivando a domandarsi: “possibile che le colonne di supporto abbiano ceduto ex abrupto e simultaneamente?”.

Raffrontando infatti il video del collasso del WTC 7 all’implosione di una demolizione controllata si noteranno le forti analogie, troppe, almeno per non dubitare della versione ufficiale che, semplicemente ha scelto di non rispondere alla domanda: come ha fatto l’edifico 7, mai colpito da uno dei jet, a collassare su se stesso in maniera simmetrica in un tempo simile a quello della caduta libera?

GEOPOLITICA: E ORA TOCCA ALL'IRAN
Di Enrica Perucchietti

“Gli Stati Uniti non escludono nessuna opzione” ha dichiarato il Premio Nobel per la Pace Barack Obama, in merito alla vicenda del presunto complotto iraniano per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington.
Già, perché questa volta il casus belli è un fantomatico complotto che per la Casa Bianca sarebbe stato organizzato nientemeno che dal governo iraniano. E come nel caso della diffusione ufficiale della notizia della morte di Osama bin Laden – anche se era la nona volta che un Presidente o un alto dirigente governativo ne annunciava la morte! – i Media hanno subito ribattuto come oro colato le conclusioni del Pentagono in merito alla sicurezza nazionale. Senza batter ciglio la notizia di un complotto che avrebbe coinvolto addirittura il Governo di Teheran, è rimbalzato di quotidiano in TV, senza che nemmeno un giornalista si fermasse un attimo ad esaminare l’assurdità della notizia. Assurda perché per quanto si faccia di tutto per far passare come un idiota Ahmadinejad, non è così folle da suicidarsi e trascinare il Paese in una guerra che non potrebbe mai vincere. Al massimo potrebbe scatenare un armageddon in stile Dottor Stranamore…
Secondo perché i conoscenti, famigliari, amici, colleghi di uno dei due presunti terroristi, Arabsiar, ora rinchiuso nel carcere di New York, sono rimasti sconcertati dalla notizia, dichiarando che costui “si perdeva sempre le chiavi e il telefono cellulare. Non sarebbe stato capace di eseguire un piano del genere”. Il presunto attentatore è stato bollato con sincerità come un "opportunista" ma non come un “killer calcolatore”. In primis perché non ne avrebbe avuto motivo: venditore di auto di seconda mano in Texas, non era un fanatico, né, a quanto pare, era in grado di organizzare un'operazione di tale portata, che dall'Iran al Messico, fino a Washington, avrebbe avuto ripercussioni mondiali. Ciò non esclude che possa essere rimasto coinvolto in un piano internazionale più grande di lui, ma bisognerebbe capire da chi sia stato orchestrato. Dal Pentagono o da Teheran? Perché dobbiamo sempre credere a priori alla veridicità delle affermazioni di Washington, quando la storia ci insegna che gli USA hanno mentito all’opinione pubblica e agli alleati numerose volte soltanto a partire dalla guerra in Vietnam? Forse perché l’America adotta ancora oggi la pena di morte, tortura i prigionieri, controlla i propri cittadini in barba alla privacy, prevede di inserire microchip sottocutanei nella popolazione a scopo “terapeutico”, dimostrando di essere civile quanto un leone affamato davanti a una gazzella azzoppata? O perché ha in corso ben tre conflitti principali in Iraq, Afghanistan e Libia, colpo di coda di un impero in declino che per continuare a sussistere non può che continuare a espandersi?
Perché mai questo Paese modello di civiltà, moralità e democrazia “da esportazione” dovrebbe essere più affidabile dell’Iran? Perché ci hanno abituato ad avere timore dello straniero, degli arabi, dei musulmani, dell’Islam in generale? Perché dopo aver trascinato anche il nostro Paese in una guerra inutile quanto assurda contro i talebani, radendo intanto al suolo l’Afghanistan in modo che non si possa risollevare per i decenni a venire senza i miliardari appalti di ricostruzione americano-europei, ora dovremmo sostenere senza battere ciglio qualsiasi “opzione” Washington deciderà di attuare?
Ora, avendoci gli inquilini della Casa Bianca abituati negli anni a prendere cantonate, a detronizzare vecchi alleati o a raccontare balle di stampo geopolitico – come nel caso di quelle armi di distruzione di massa che mentre faticavano a saltare fuori legittimarono però l’invasione dell’Iraq – una maggiore meticolosità nelle indagini sarebbe forse preferibile all’ennesimo conflitto “emotivo” in Medio Oriente, che potrebbe – evidentemente – causare la Terza Guerra Mondiale.

Va bene che ogni Paese oggi ha il suo bel da fare tra crisi economica e crisi di governo, ma sdegnare il rischio di trascinare il mondo intero nel caos – o peggio nella distruzione totale – per cecità o censura mediatica imposta dall’alto o dalle mazzette è da scellerati. Meglio disturbarsi di parlarne fino allo svenimento che trovarsi a cose fatte in mezzo alle macerie. Anche perché il decennio post 11 settembre ci ha abituato a fantomatici “attentati” sventati o effettivamente consumati le cui cause erano invece da rinvenire in agenti provocatori appartenenti all’intelligence americana – FBI, CIA, Pentagono. Nulla di cui meravigliarsi: fa tutto parte della strategia geopolitica. Chi c’è dentro lo sa benissimo, e non ne fa neppure segreto. Si chiamano false flags le false operazioni che vengono pianificate per ottenere uno specifico risultato: risollevare un Presidente in calo nei sondaggi (si veda la voce, uccisione senza cadavere di Osama  bin Laden), giustificare un’azione bellica (Iraq, Afghanistan), manipolare l’opinione pubblica (11/9), restringere la privacy dei cittadini (Patriot Act), intimidire gli Stati non allineati con la politica americana o addirittura rei di accordi con la Russia di Putin (strage di Oslo).

Per riscrivere i confini del prossimo quanto imminente Nuovo Ordine Mondiale, bisogna “sacrificare” qualche vita e qualche capro espiatorio per manipolare l’opinione pubblica con i false flags e con la guerra del terrore permanente che destabilizzi i cittadini. Peccato che a prevedere quanto sta succedendo in questi mesi, settimane, giorni, sia stato proprio il mentore di Obama, il vecchio stratega polacco Zbigniew Brzezinski, che non ha mai nascosto le sue intenzioni belliche al mondo da quando sosteneva il diritto degli USA a conquistare il globo: semplicemente il mondo non si è preoccupato di ascoltarlo. Quando Hannah Arendt parlava di “banalità del male”, includerei non solo la censura più vile del giornalismo di Stato, ma anche il nostro atteggiamento quotidiano di accidia: troppo pigri per approfondire le notizie che non siano di mero gossip preferibilmente morboso, troppo impegnati ad arrivare a fine mese e  sbarcare il lunario, ci siamo lentamente atrofizzati la coscienza critica, accettando passivamente le “opzioni” più scellerate. Così, sconvolti dall’eccidio dell’11/9 abbiamo accettato per il “nostro bene” per la “nostra sicurezza” di inviare le “nostre truppe” a invadere un Paese che non c’entrava nulla – l’Afghanistan – per dare la caccia a un fantasma – Osama bin Laden – per poi ampliare l’invasione all’Iraq dell’ex alleato Saddam Hussein, fino alla Libia del Colonnello Gheddafi, che - almeno in Italia e Francia - abbiamo molto, troppo recentemente accolto con tutti gli onori (e baciamano).

 Ma la memoria storica è più succinta della moralità dei nostri regnanti, troppo concentrati in Bunga Bunga per ritagliarsi spazi per governare. Ma mentre in Italia ci illudiamo ancora che esista qualche differenza destra e sinistra, il caro Obama ci ricorda con le sue promesse disattese punto per punto (e ci vuole una certa astuzia per impegnarsi categoricamente nell’adempiere l’esatto opposto di quanto promesso) che cosa significhi dipendere dagli assegni milionari dei Gruppi di Potere: Banche, in primis, multinazionali del petrolio, degli OGM, della Difesa, aziende farmaceutiche, studi legali, compagnie di assicurazione. Già. Quando si contrae un debito col Diavolo, costui presto o tardi passerà a riscuotere. Non ci saranno cortei angelici a salvare i novelli Presidenti, perché di Faust ce n’è stato uno solo e di Kennedy con “le palle” solo due, John Fitzgerald e il fratello Robert: infatti sono stati uccisi entrambi per il proprio coraggio. Per aver tentato almeno di ribellarsi a quel Governo Ombra che detiene l’Agenda politica ed economica internazionale. Allora si trattava di ribellarsi contro la Mafia che ne aveva facilitato l’elezione, di richiamare le truppe dalla guerra in Vietnam, di far cessare gli esperimenti nucleari, di abbattere il signoraggio. Invece il burattino Obama predica bene e razzola l’opposto, costretto a ricambiare con favori i soldi della (sua) campagna elettorale più dispendiosa della storia. Ed è ora di concentrarsi sulla nuova: come fare se il popolo degli indignados assedia Wall Street e accerchia le abitazioni dei miliardari? Come fare se la disoccupazione invece di calare è salita oltre il 9%? Si prepara una nuova guerra. La notizia della morte di Osama bin Laden procurò a maggio un’impennata nel gradimento del Presidente che prima del 2 maggio era in caduta libera. Coincidenze? Manna celeste caduta sull’unto delle masse dei diseredati (traditi fin da subito per il salvataggio “senza garanzie” delle Banche too big to fail, troppo grandi per fallire)? E dire che a sollevare i primi dubbi sul presunto omicidio dello Sceicco del Terrore (senza corpo da identificare) era stato proprio il Governo di Teheran, che sicuramente è di parte, ma forse tanto scemo non è…

Oggi ci troviamo a non tentare nemmeno di opporci a due guerre decennali – Iraq e Afghanistan – che ormai sono diventate routine (per noi, un po’ meno per coloro che là vivono sotto i bombardamenti dei droni, la carestia, le epidemie), al più recente conflitto in Libia, all’imminente invasione dell’Iran. A cui seguirà la Siria, già nel mirino della Casa Bianca. Perché guarda caso, quando vengono resi noti questi falliti attentati, i piani di conquista del Paese di turno - che viene accusato di essersi reso colpevole di un peccato capitale o di tradimento - esistevano già da mesi, se non da anni, sulle scrivanie dei vari Presidenti americani.  Proprio come i piani di invasione di Iraq e Afghanistan che attendevano, a dirla secondo Brzezinski, una “nuova Pearl Harbour” che compattasse l’opinione pubblica verso il nemico costruito a tavolino con un false flag appunto. E così avvenne allora, come forse sta per avvenire ora: l’11/9 sconvolse a tal punto l’opinione pubblica da legittimare l’intervento bellico. E la teoria della guerra preventiva stava diventando storia. Una storia che il nostro ossimoro vivente, Obama che stringe con una mano il Nobel per la Pace, con l’altra firma piani di invasione, ha imparato molto bene.

Entrare in guerra contro l’Iran significherebbe ora dare l’avvio alla Terza Guerra Mondiale, mandando in fumo i trattati di pace israelo palestinesi e impegnando le truppe americane ed europee in un evidente accerchiamento di Russia e Cina (che lo stesso Bill Clinton ha recentemente definito “la nostra banca” avendo comprato la maggior parte del debito americano) nella corsa alla conquista del Medio Oriente. Ciò varrebbe come reazione non solo la chiamata alle armi e il compattamento di tutto l’Islam, ma un’ipotetica reazione di Russia e Cina. Obama sembra infatti intenzionato, applicando alla lettera la teoria della guerra preventiva, a “perseguire” i responsabili. Ora, si potrebbe anche involarsi ad accettare la veridicità di un ipotetico coinvolgimento del governo iraniano nel complotto, se non fosse che il nostro vecchio stratega Brzezinski il 2 febbraio 2007 davanti alla Commissione Esteri del Senato USA mise in guardia da un “plausibile scenario per una collisione militare con l’Iran”. Eccolo, di nuovo: sempre lui. Novella Cassandra che parla e prevede fin nei minimi particolari, dalla Pearl Harbour che fu l’11/9 come “occasione” (citando Cheney e Rice) per oliare il motore dell’espansionismo americano, alla prossima tappa in terra iraniana – che però Brzezinski non vuole. Dunque? Soltanto un espediente per isolare sepre più l’Iran a livello internazionale? Ma che cosa prevedeva questo scenario? Ce lo ricorda Pino Cabras dal sito di megachip:
Includeva «il fallimento [del governo] iracheno nell’adempiere ai requisiti [stabiliti dall’amministrazione statunitense], con il seguito di accuse all’Iran di essere responsabile del fallimento, e poi, una qualche provocazione in Iraq o un atto terroristico negli Stati Uniti che sarà attribuito all’Iran, [il tutto] culminante in un’azione militare “difensiva” degli Stati Uniti contro l’Iran». Nel 2007 la critica di Brzezinski puntava molto in alto, lamentando, sull’Iraq, «il fatto che le principali decisioni strategiche vengono prese in un circolo assai ristretto di persone, forse non più delle dita della mia mano. E sono questi individui che hanno preso la decisione iniziale di andare alla guerra». E nel caso dell’atto terroristico ipotizzato, era la prima volta che una voce americana di così straordinaria autorevolezza, considerava "plausibile" che qualcuno, in seno agli apparati di governo statunitensi, potesse organizzare un attacco contro gli Stati Uniti, in modo da attribuire poi il tutto a qualche nemico esterno e provocare una guerra.
Ora il nuovo ombelico del terrorismo internazionale è l’Iran. Dieci anni fa le montagne afghane. Poi è stata la volta dell’Iraq. Ora, non c’è dubbio, è l’Iran – parola del Pentagono.
Se le accuse contro Teheran fossero confermate, si tratterebbe della violazione della Convenzione Onu sulla protezione del personale diplomatico, firmata anche dal governo iraniano. In tal modo gli Usa o l'Arabia Saudita potrebbero chiedere l'estradizione del secondo presunto terrorista coinvolto nella vicenda: quello sfuggito all'arresto. Se Teheran si rifiutasse, il caso potrebbe finire al Consiglio di sicurezza o alla Corte internazionale dell'Aja. Ma se ciò avvenisse, non ricorderebbe un po’ il rifiuto del Mullah Omar di consegnare bin Laden, seppure non corressero buoni rapporti tra i due? La ciclicità degli eventi è evidente. Le conseguenze anche. Ma noi preferiamo continuare ad aspettare una fantomatica catastrofe dal cielo piuttosto che vedere che se la fine del Mondo dev’essere, sarà umana, fin troppo umana.

NWO DIETRO IL DUPLICE ATTENTATO DI OSLO E UTOJA

 di Enrica Perucchietti

 

Esistono almeno dieci ottime ragioni per rivedere la versione ufficiale che le autorità e i Media ci hanno trasmesso del duplice attentato a Oslo e Utoja.

Di queste, almeno sei valgono come moventi che potrebbero aver spinto coloro che sostengono un Nuovo Ordine Mondiale ad attaccare la Norvegia in modo che il sangue fungesse da monito per il futuro. Propedeutico a ciò l’entrata della Norvegia nell’Unione Europea.

In estrema sintesi: la mancata adesione all’UE; lo storico accordo di cooperazione siglato nel 2010 con la Russia e solo ora entrato in vigore; un’autonomia che si rispecchia in un Governo e un’economia forte che ha resistito alla crisi; una politica pronta a riconoscere la Palestina; le  risorse di petrolio e gas e gli appalti ventennali sui pozzi iracheni; la  decisione di ritirare le truppe dalla Libia; la spaccatura interna alla NATO facente capo a una politica filorussa; la presenza di una loggia massonica fondamentalista di culto svedese; le esercitazioni militari del governo norvegese che “avrebbero” – come nel caso dell’11/9 e di Londra 2005 - coperto l’operato dei terroristi. Infine, la testimonianza di numerosi sopravvissuti sull’isola di Utoja che ci fosse un vero e proprio commando che avrebbe affiancato Behring Brevik nella sua follia omicida.

 

Partiamo dall’evidenza: la mancata adesione della Norvegia all’Unione Europea. In due occasioni un referendum popolare ha bocciato l’ipotesi di entrare a far parte dei Paesi membri. Il no definitivo è arrivato nel 1994. Non solo, secondo un sondaggio il 66% della popolazione sarebbe contraria all’annessione. Su questa decisione peserebbe la crisi che hanno attraversato diversi stati membri una volta entrati nella UE.

Se da un lato pesa la recente indipendenza conquistata nel 1905 dal Paese dopo secoli di unione con Svezia e Danimarca, dall’altro il controllo delle acque territoriali con la pesca e l’accesso a risorse quali petrolio e gas votano a sfavore dell’adesione: in questo caso le loro acque potrebbero essere sfruttate anche da altri Paesi europei per la pesca, mentre dall’altro riceverebbero dure sanzioni per la caccia alle balene. Avendo sottoscritto il trattato di Schengen, la Norvegia non ha problemi con gli scambi economici, mentre un’eventuale adesione all’UE sarebbe controproducente per un Paese che ha standard ben al di sopra di quelli richiesti per l’annessione. La Norvegia si è dimostrata una Nazione autonoma, ricca, forte, che ha retto la caduta dei mercati e la conseguente crisi economica. Questa indipendenza non può che intralciare l’opera di coloro che vogliono Stati deboli per un’Europa forte che sostituisca le singole autorità nazionali.

 

Nel progetto di costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale, professato non solo dalle dinastie quali Rockefeller e Rotschild, ma anche da politici e capi di Stato, la mancata adesione al primo step rappresentato dall’UE non può che essere visto come un ostacolo da eliminare. Non si può escludere che entro un anno, dopo questo duplice attentato, venga riproposto il referendum per l’adesione all’Unione Europea e che questa volta il sì “magicamente” prevalga.

Nella geostrategia disegnata dagli USA e professata dal mentore e consigliere ombra di Obama, Zbigniew Brzezinski, emerge un rigurgito di Guerra Fredda che vede l’America come pilastro politico ed economico degli equilibri mondiali a cui si contrappone l’asse costituito da Russia e Cina, le uniche antagoniste all’espansionismo imperiale americano. A questi due blocchi si aggiungono Paesi indipendenti e forti che sembravano non aver bisogno della guida e della protezione degli USA. Che credono – o meglio credevano – di essersi ritagliate un porto sicuro fuori dalla geopolitica globale. Tra questi Libia e Norvegia sono gli ultimi esempi – seppur diversi - in ordine di tempo.

 

La Libia di Gheddafi è stata attaccata in quella che Obama ha definito incomprensibilmente una “non guerra” per ragioni che vanno ben oltre il mancato rispetto dei diritti umani. La decisione del Colonnello di abbandonare il dollaro per riprezzare petrolio, gas e altre materie prime e di adottare così una nuova valuta, il dinaro oro, può gettare una nuova luce sulle reali motivazioni che hanno portato a questo nuovo conflitto. Soprattutto a scaricare quello che per molti Paesi, Francia e Italia in primis, era considerato un valido alleato.

Trent’anni fa in un intervista rilasciata alla Principessa giapponese Nakamaru, Gheddafi aveva previsto l’intervento della CIA sul territorio libico e nel Medio Oriente per militarizzare l’area e impadronirsi delle materie prime. La decisione di riprezzare petrolio e gas – proprio come aveva fatto Saddam Hussein nel 2001 riprezzando il petrolio sull’euro - avrebbe ovviamente condotto a una svalutazione del dollaro che avrebbe messo in serio pericolo l’economia statunitense già sul baratro della bancarotta. Similmente la Norvegia si stava dimostrando troppo indipendente per gli interessi globali delle stesse elite che hanno appoggiato l’intervento in Libia. La decisione di ritirare la propria partecipazione sul territorio libico a partire dal 1 agosto di quest’anno ha portato il Ministro della Difesa britannico ad accusare il Governo norvegese – così come quello olandese- “di non fornire sufficienti forze aeree per la campagna in corso”.

 

A ciò si aggiunge l’accordo storico stipulato con la Russia, destinato a riscrivere gli equilibri economici mondiali. Il Trattato, firmato a Murmansk il 15 settembre scorso dal Primo ministro norvegese Jens Stoltemberg e dal Presidente russo Dimitri Medvedev, definisce la linea di demarcazione delle zone di influenza economica nel Mare di Barents, secondo un criterio che assegna, alle due nazioni, parti ritenute uguali, per regolare attività che vanno dalla pesca del merluzzo allo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti petroliferi e di gas naturale in un bacino di 175 mila chilometri quadrati. Si può capire come tale asse strategico metta a rischio gli interessi e il controllo americano sul nostro continente. Anche in questo senso il duplice attentato può essere letto come un “avvertimento” a non procedere oltre…

Oltre ai giacimenti di gas e petrolio, Norvegia e Russia si sono aggiudicate tramite la Statoil Hydro e la Lukoil, l’assegnazione degli appalti ventennali su uno dei maggiori giacimenti petroliferi nel Sud dell’Iraq: una riserva di 13 miliardi di barili di petrolio. La Statoil aveva già fatto tremare le lobby americane dopo essere entrata in un partneriato con la Gazprom per il maxi giacimento di gas a Shtokman… Inoltre la Norvegia si sarebbe macchiata, secondo fonte di Ha’aretz – di aver escluso per ragioni etiche quasi un anno fa due imprese israeliane dalla partecipazione dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio nel Mare del Nord (http://www.haaretz.com/print-edition/business/norway-government-run-pension-fund-drops-africa-israel-group-shares-1.309874).

 

Veniamo ora alla politica estera. La Norvegia non si è solo “macchiata” della colpa di voler ritirare le sue forze aeree dalla Libia, ma si è contraddistinta per una politica giudicata da alcuni “anti NATO”. Come riportato da Gianluca Freda (http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8665) secondo il Cablegate di Wikileaks, il governo norvegese sarebbe stato accusato di far parte della cosiddetta “banda dei cinque” insieme a Francia, Germania, Olanda e Spagna. Le cinque nazioni avrebbero adottato una politica filorussa, creando così una frattura interna alla NATO.

Il secondo peccato della Norvegia in politica estera sarebbe l’appoggio alla causa palestinese. Qui si possono comprendere meglio le voci che hanno parlato anche in questo caso, come nell’11/9, del coinvolgimento del Mossad nel duplice attentato. Ci torneremo più avanti. Il Ministro degli Esteri norvegese, Jonas Gahr Stoere, ha dichiarato in una conferenza stampa tenutasi a Ramallah, che il suo Paese era pronto a riconoscere il futuro Stato palestinese. Non solo. Il Partito Socialista di Sinistra di Kristin Halvorsen si è spinto oltre fino a chiedere di far votare una mozione in cui si chiederebbe un’azione militare contro Israele nel caso di un’azione violenta contro Hamas a Gaza. Il che è davvero troppo anche per un Paese come la Norvegia!

A ciò si aggiunge l’esclusione delle due imprese israeliane dalla partecipazione dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio e l’accusa che il Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Liebermann mosse alla Norvegia di adottare politiche di antisemitismo. Allora Liebermann durante una riunione ONU a New York puntò il dito proprio contro il Ministro norvegese Jonas Gahr Store parlando di una sua connivenza con Hamas.

Per chi fosse ancora scettico in merito, basti pensare alla casualità del Fato (sic!) che ha visto il paladino dello causa palestinese, il Ministro Gahr Store, chiedere la fine dell’occupazione israeliana proprio giovedì scorso… a Utoja, presso il campo estivo della gioventù laburista! Che coincidenza davvero! Si capisce che l’avvertimento di Liebermann non gli era bastato…

Ma il Ministro degli Esteri non è il solo ad aver rischiato la pelle nel duplice attentato. Si pensi che il Primo Ministro Jens Stoltenberg aveva mandato i propri figli a prender parte proprio al campo di Utoja. I ragazzi e Gahr Store si sono salvati.

Ma costoro avranno capito il monito?

 

La lettura “alternativa” degli eventi ci spinge a constatare come ci sia stata un’accelerazione negli attentati “simbolici”, che dovrebbero fungere da avvertimento o da causa per una reazione da parte dei Governi. Quest’ultimo fu il caso dell’11/9 che condusse il Governo a rispolverare il Patriot Act che stava ammuffendo sulla scrivania di Bush jr. in attesa che un evento straordinario – “una nuova Pearl Harbour” come l’aveva evocata Brzezinski nel 1997 – sconvolgesse a tal punto l’opinione pubblica da poter stringere il cappio della sicurezza e trovare un movente per l’occupazione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, i cui piani di evasione ammuffivano insieme alla bozza del Patriot Act. Le conseguenze sono storia. La Pearl Harbour auspicata da Brzezinki avvenne puntualmente l’11/9. Ma un punto su cui si è troppo poco discusso è l’esercitazione condotta dal NORAD e dal Consiglio di Stato Maggiore riguardo alla simulazioni di un ipotetico attentato aereo. Il caso volle che l’attento avvenisse poco dopo l’esercitazione, senza che NORAD, FBI e CIA riuscissero a far abbattere gli aerei che ebbero il tempo di virare verso i loro obiettivi con tutta calma sorvolando diverse basi militari… anzi! Numerosi caccia vennero mandati fuori rotta sull’Oceano Atlantico nell’ambito della fantomatica simulazione.

Ora, si vede che quando un inganno funziona coloro che si nascondono “dietro il trono”, hanno deciso di esportare le modalità dei false flag cambiando solo – su necessità – il capro espiatorio. Nel caso di Oslo – proprio come già avvenuto anche a Londra per gli attentati del 2005 – la polizia anti terrorismo norvegese stava eseguendo la tipica esercitazione con tanto di scoppio di esplosivi, all’insaputa degli ignari cittadini.

Ora, non essendo capitato solo una volta, la coazione a ripetere della modalità dei servizi segreti supportati dal Mossad potrebbe aver firmato anche questa pagliacciata.

La fantomatica esercitazione potrebbe essere servita - come nel caso dell’11 settembre e di Londra - a far agire indisturbati i veri responsabili degli attentati, in modo che potessero piazzare gli esplosivi. Così avvenne a New York, poi a Londra, ora a Oslo. Sono note le centinaia di testimonianze di cittadini americani che l’11/9 sentirono e videro esplodere delle cariche all’interno del World Trade Center. Basti pensare all’edificio numero 7 che crollò su se stesso in pochi secondo come in una demolizione controllata SENZA neppure essere stato colpito!

Ora, senza tornare sulle anomalie dell’11/9, la stessa cosa sembra sia accaduta anche a Oslo. L’esercitazione militare che si è tenuta 48 ore prima in prossimità del teatro dell’Opera, può aver benissimo coperto e permesso il piazzamento dell’esplosivo che non si è ridotto soltanto a un’autobomba ma ha colpito diversi edifici governativi.

Per chi si chiede che cosa c’entri il Mossad anche in questo caso, eccovi soddisfatti: come ha spiegato Gianluca Freda, «il Mossad opera in Norvegia in cooperazione con i servizi segreti locali, sotto la copertura del cosiddetto “Kilowatt Group”, una rete d’intelligence che vede la partecipazione, oltre che di Israele e Norvegia, anche di altri paesi quali Svizzera, Svezia e Sudafrica e che si maschera – manco a dirlo – sotto la finalità di facciata della “lotta al terrorismo”». Sul Kilowatt Group quel poco che si sa è emerso da alcuni documenti della CIA: è stato fondato nel 1977 ed opera a stretto contatto con il Mossad, «The group is dominated by Israel because of its strong position in the information exchange on Arab based terror group in Europe and the Middle East».

Infine, è evidente che il duplice attentato non possa essere stato commesso da un’unica persona. Non solo perché non ci sarebbe mai riuscita, sebbene Hollywood ci abbia abituato a credere a tutto. Ora, neppure Bruce Willis avrebbe potuto farcela da solo. Che un 32enne emotivamente fragile, mitomane e bugiardo, con il pallino della politica, cristiano e razzista possa essersi trasformato nella nemesi di Jason Bourne è semplicemente ridicolo. Che fosse un massone – del terzo grado! – non cambia le cose. Costui è stato evidentemente aiutato da qualcuno. I testimoni dell’isola di Utoja hanno infatti raccontato di aver sentito gli spari provenire da diverse parti, avvalorando la pista di un commando. Neppure un esaltato può agire indisturbato per un’ora e mezza con un fucile automatico! Che poi sia stato libero di agire per tutto questo tempo è un’altra questione che coinvolge la responsabilità della autorità.

Ora, che a nessuno sia venuto in mente il precedente del pluriomicida australiano Martin Byrant è sintomo della superficialità con la quale vengono affrontate e trattate le notizie. Anche Bryant – fisicamente simile a Behring, biondo, carnagione chiara, occhi chiari, sguardo spiritato – è stato accusato di aver ucciso da solo il 28 aprile 1996, 35 persone nella strage tristemente più nota della storia australiana. Emotivamente fragile, narcisista, violento, all’età di 31 anni è stato fermato come unico colpevole della strage di Port Arthur. Che abbia agito da solo, anche in questo caso, è improbabile. Bryant, inoltre, era stato sottoposto da adolescente a cure psichiatriche da uno dei responsabili del progetto Tavistock in Tasmania, una sorta di MK-ULTRA inglese. Il Tavistock avrebbe agito da copertura per esperimenti sulla psiche di giovani malati così come a partire dagli anni ’50 il progetto Monarch MK-ULTRA, portato avanti dalla CIA, sperimentò come gli abusi possono creare personalità multiple su cavie umane così da dar vita a super soldati o semplici sicari mentalmente manipolabili e all’oscuro di tale controllo mentale ma attivabili sulla base di semplici ordini vocali o visivi.
L’MK-ULTRA ha avuto un suo “braccio” anche in Norvergia, così come il Tavistock in Australia. Il 4 settembre 2000 il Norway Post ha rivelato come il governo norvegese iniettò LSD e altre droghe a bambini e pazienti adulti in cura psichiatrica. Alla somministrazione di sostanze psicotrope si alternavano tecniche di privazione del sonno, della fame, elettroshock, radiazioni, ipnosi e abusi fisici per creare traumi ai pazienti.

Tali tecniche sono state utilizzate anche da logge deviate della Massoneria: in tali casi si parla di Masonic mind control.
La loggia a cui apparteneva Behring Breivik è la famigerata St Johannes Logen St Olaus di rito svedese.
L’ex Illuminato Leo Lyon Zagami che ha messo a repentaglio la sua vita per denunciare gli abusi e le pratiche occulte e sataniche di questa frangia deviata della Massoneria, è stato costretto a riparare all’estero dopo essere stato arrestato per spionaggio dalle autorità norvegesi. Egli aveva fondato nel 2006 il progetto AKER LUX e il CLUB of NOW, con lo scopo di opporsi allo strapotere di questa frangia fondamentalista della Massoneria di rito svedese. In questo senso Zagami porta avanti da anni la denuncia del Rito Svedese e del suo legame con l’O.T.O. e il satanismo in generale.
La possibilità che Behring Breivik, che era soltanto un iniziato al terzo grado, possa essere stato plagiato e manipolato dalla Loggia a cui apparteneva è evidente. Come spiegato da Zagami, il Rito Svedese della Loggia deriverebbe dal Rito della Stretta Osservanza Templare, fondato nel 1756 dal barone Karl Gotthelf von Hund, la cui frangia tedesca influì, secondo Zagami, nel retroterra esoterico che diede vita al nazismo.
È altrettanto evidente che il duplice attentato, che ha ora come unico capro espiatorio un giovane uomo trentaduenne, è stato un monito per la politica del Governo norvegese.
Un avvertimento a cambiare rotta, a sottostare alla creazione di un nuovo ordine mondiale e a sottrarsi alla cooperazione con la Russia. Un modo per far capire che l’indipendenza non è concessa.
Sarà servito?

Speriamo di no.


LE VERITA' NON DETTE
SULLA "MORTE" DI
OSAMA BIN LADEN

di Enrica Perucchietti

Osama bin Laden è morto, conferma Al Qaeda, annunciando vendetta. Contro gli USA, contro il Pakistan, contro l’Occidente.
Job well done, risponde a distanza Obama congratulandosi con i Navy Seals. Bel lavoro.
Mentre la gente torna a riversarsi nelle strade intonando YES WE CAN!
La morte dello sceicco del terrore ha riportato la speranza.
Peccato che sia la nona volta dal 2001 che un Capo di Stato o un alto funzionario governativo ne annunci la morte.

La morte del… giornalismo

Che cosa sappiamo veramente dell’uccisione di Osama?
La notizia è stata diffusa in modo lapidario insieme a una vecchia foto ritoccata che ritraeva la salma sfigurata del terrorista.
Nel giro di poche ore si sono avvicendate versioni contrastanti dell’accaduto. Si è detto tutto e il contrario di tutto. Senza smentite ufficiali. Si è lasciato che il mondo divorasse i dettagli più fantasiosi di un’operazione dei Navy Seals lasciando che il verosimile venisse travolto e fagocitato da un mucchio di fandonie. E ci sono cascati tutti in un modo o nell’altro, conficcando ciascuno il proprio chiodo nella bara del giornalismo. Il verosimile che una volta si cercava di far ingerire a forza alla popolazione è stato sostituito con l’inverosimile – come ha ben fatto notare Giulietto Chiesa – dando adito a ricostruzioni variopinte. Dimostrando il carattere virtuale dell’intero sistema mediatico.
In realtà, come ha scritto Robert Fisk, il corrispondente del quotidiano britannico The Independent in Medio Oriente, «è che ci siamo persi da molto tempo nel cimitero degli imperi e abbiamo trasformato la caccia a un ormai irrilevante inventore del jihad globale in una guerra contro decine di miliardi di taliban, ai quali interessa poco Al Qaeda, ma che non vedono l’ora di cacciare gli eserciti occidentali dal loro Paese».

Il blitz

Quali sono state le modalità del raid?
Osama ha opposto resistenza alla cattura, ha fatto fuoco e ha usato come scudo umano la giovane moglie 29enne.
No, Osama dormiva ed è stato sorpreso nel sonno.
No, era già morto da due giorni secondo il suo medico personale.
No, è ancora vivo secondo un’intercettazione pubblicata da un quotidiano egiziano.
Questo balletto di contraddizioni non sono ipotesi sparate a caso dai giornalisti, che ormai si bevono tutto ciò che l’ANSA o le autorità propina loro – pace pure all’anima della coscienza critica! – ma le molteplici versioni ufficiali che hanno accompagnato in questi giorni la notizia della morte del nemico numero uno degli USA. Il ricercato numero uno per la CIA ma non il most wanted per l’FBI che non ha mai potuto ufficialmente legare il suo nome all’Attacco alle Torri Gemelle e che lo aveva inserito tra i nominativi dei ricercati per solo l’attentato del 1998.
Alcuni giornalisti sono arrivati a scrivere che le informazioni sul luogo in cui si trovava Bin Laden proverrebbero da alcuni prigionieri di Guantanamo! Perché, i carcerati sepolti a Guantanamo Bay da ormai dieci anni hanno il telefono? O comunicano con i militanti in Medio Oriente tramite pizzini?
E come avrebbero fatto le autorità a entrare in possesso di queste notizie? Ovviamente grazie a una particolare opera di convincimento. Nessuno patteggiamento o benefit, s’intenda. Sarebbe stata usata invece la cara vecchia tecnica della tortura per estorcere loro le informazioni, ma a fin di bene… La Chiesa insegna che gli strumenti da Inquisizione possono rivelarsi convincenti anche con i tipi più ostinati…
Forse presto ci verranno anche a dire che Obama ha fatto bene a non chiudere Guantanamo Bay e che in fin dei conti la tortura può essere un ottimo strumento per l’interrogatorio degli elementi più “difficili”. Ma se a dirlo è un Nobel per la Pace alle prese con tre conflitti e che si augura che anche il «cappio intorno al collo di Gheddafi si sta stringendo», forse dovremmo credergli, almeno in virtù del suo animo giainista che si nutre di pace e nonviolenza…
Le modalità effettive del blitz, in ogni caso, non le sapremo mai. Magari finiranno per farci vedere il filmato dell’esecuzione – su imposizione dell’ONU – ma chissà che cosa ci propineranno veramente. Una ricostruzione in digitale? L’omicidio di uno dei sosia? Lo sbarco sulla Luna? L’ultimo film di James Cameron?
Chissà.
Per ora abbiamo dei filmini amatoriali casalinghi dove possiamo distinguere un vecchio che potrebbe essere mio nonno con una copertina di lana sulle spalle. Le fotografie e i filmati successivi al 2002 che ritraevano Bin Laden erano già passati al vaglio degli esperti di computer grafica e morphing che avevano dimostrato come l’uomo che ci volevano far credere fosse ancora Osama non era affatto lui. Qualcuno di molto simile, certo, ma sarebbe bastato un novello Lombroso per scoprirli: naso e tratti del viso troppo diversi per coincidere. Forse avevano fatto ricorso semplicemente a un sosia, come ci ha abituato anni or sono il vecchio Saddam.
Già.
Il famigerato Saddam Hussein, così come i peggiori criminali nazisti, è stato catturato e seppur in modo diverso da Norimberga, sottoposto a processo e poi giustiziato. Per Osama non abbiamo avuto questa premura.
Perché tale scortesia?

Osama preparava un nuovo 11 settembre

A quattro giorni di distanza dal raid ci è stato detto che la CIA controllava da quasi un anno la famiglia di Osama che viveva nel villaggio vicino alla città di Haripur, a qualche decina di chilometri da Islamabad, dal lontano 2003. Poi sette mesi di intercettazioni e pedinamenti per convincersi che nella villetta si stava nascondendo il vero Osama. Dai documenti sequestrati emergerebbe che nonostante l’isolamento forzato e la malattia, Bin Laden era in contatto con importanti figure di Al Qaeda e sarebbe stato in grado di pianificare i futuri attacchi contro obiettivi americani dal suo nascondiglio in Pakistan. Non avrebbe mai smesso di cospirare nel periodo di cattività. Tra i 2,7 terabite di dati nascosti ci sarebbero anche i video inediti che ora ci mostrano con il contagocce.
Questa volta l’obiettivo sarebbero state le ferrovie, ma non è chiaro di quale o quali città, il piano era ancora embrionale.
Bin Laden progettava un attentato nel giorno dell’anniversario dell’11 settembre. O forse il giorno di Natale. O Capodanno. O meglio ancora il 4 luglio. La data non era ancora chiara. Ma fidatevi! ci stava lavorando sodo dallo scorso anno…
Certo che 2,7 terabite di dati nascosti in un villino senza sorveglianza abitato da donne e bambini, non sembra strano? Otto anni nello stesso luogo senza mai destare i dubbi del vicinato.
E ci vogliono far credere che quel vecchio con la copertina di lana sulle spalle avrebbe avuto “il pieno controllo strategico e operativo” dell’intera organizzazione terroristica di Al Qaeda e che quel buco dove era nascosto sarebbe stato “il centro del comando attivo” delle operazioni?
Mi risulta facile crederlo come ai prigionieri di Guantanamo che comunicano con l’esterno. Le opzioni sono due. O la prigione di massima sicurezza è una groviera - e Obama farebbe allora meglio a chiuderla - e dall’altra il compound di Abbotabad era il centro criminale di Al Qaeda, oppure sono entrambe due clamorose menzogne e, o Osama era già morto da tempo, e lì ci abitava qualcun altro, oppure era davvero lui ma aveva scarso potere all’interno dell’organizzazione.
Ovvio che la scomparsa del cadavere sepolto in mare non può facilitare la ricerca della verità.
Non possono poi lamentarsi i giornalisti con pedigree o i politici che non sanno neanche dell’esistenza di un Lukashenko, che i complottisti si stiano scatenando in questi giorni, essendo deliberatamente andate distrutte le uniche prove che Bin Laden sia stato davvero ucciso il 1 maggio 2011 in Pakistan.
Dopo 7 mesi di appostamenti, indagini e intercettazioni, solo ora la CIA si è decisa a penetrare nel villino per uccidere Bin Laden. Perché?
Perché il medico di famiglia aveva decretato il decesso due giorni prima, come continua a sostenere?
O perché questa data torna utile a qualcuno?
Ci sono voluti quasi dieci anni per catturare Osama.
Perché lo spettro che ha terrorizzato mezzo mondo è stato catturato e ucciso davanti agli occhi della figlia dodicenne proprio ora?
Forse perchè i tempi della campagna militare in Libia si stanno allungando e dall’altra si sta cercando di decidere come affrontare militarmente l’emergenza Siria?
L’uccisione di Bin Laden – vera o falsa che sia – è un modo per spostare l’attenzione da un fallimento – la Libia – a un successo – la cattura di Osama?
Cui prodest?

Forse al Presidente Obama che ha annunciato ufficialmente la sua ricandidatura alle presidenziali del 2012 e che proprio la settimana prima della cattura del ricercato numero uno era stato costretto a rendere pubblico il suo certificato di nascita dopo quasi tre anni di battaglie legali per impedirne la pubblicazione, a causa dell’insistenza del repubblicano Donald Trump?
Coincidenze?

Obama vola nei sondaggi

Una panacea per Obama che vola nei sondaggi guadagnando nove punti percentuali di distacco dai suoi avversari che non riescono a raggranellare più del 20% dei consensi.
Mentre la gente torna a intonare il mantra che ci aveva perseguitato dal 2008, YES WE CAN!
Con la cattura del numero uno di Al Qaeda - ma poi, il nuovo leader di Al Qaeda non era diventato il cofondatore di Al Qaeda, l’ex medico egiziano, Ayman Al Zawahiri? – la frustrazione popolare per le promesse disattese dell’amministrazione Obama è sfumata lasciando spazio all’esaltazione mistica del ritrovato Messia delle masse.
Ecco in mondovisione il Nostro Premio Nobel per la Pace che si congratula con i suoi per aver tagliato la testa al Mostro. Poco importa se la violenza si è consumata davanti alla figlia dodicenne di costui. Poco importa se era possibile magari catturarlo e processarlo invece di ucciderlo. L’importante è che il corpo sia stato seppellito secondo il rituale islamico. E che sia sparito in mare. In modo da mettere la parola fine alla vicenda.

Per un figlio, Osama è ancora vivo

Ma sulla vicenda c’è anche molto da dire, con o senza cadavere. Con o senza prova del DNA. Con o senza foto ritoccate.
Uno dei figli di Osama Bin Laden sostiene che il leader di Al Qaeda è "ancora vivo". A rivelarlo il giornale egiziano al-Wafd citando fonti della famiglia di Bin Laden.
Martedì mattina "Samy bin Laden", figlio di Osama, avrebbe telefonato a "due fratelli" dello sceicco del terrore, "Khalid e Abdelaziz" assicurando agli zii "che il loro fratello è ancora vivo e sta bene e che quello che sostengono i Media è falso".

L’uomo che morì nove volte

Poi ci sono le versioni più o meno attendibili di premier, servizi segreti, informatori, giornalisti freelance che rivelano un’altra verità.
A partire dalla FOX che il 26 dicembre 2001 aveva rivelato che secondo i talebani afghani Bin Laden era morto all’inizio del mese ed era stato sepolto in una tomba senza alcun contrassegno come prescritto dalla pratica dei sunniti wahabiti.
Il 17 luglio 2002, Dale Watson, all’epoca capo dell’antiterrorismo dell’Fbi, aveva rivelato nel corso di una conferenza dei funzionari incaricati dell’applicazione della legge: «Io penso personalmente che Bin Laden non sia più con noi», prima di aggiungere con cautela: «Non ho però alcuna prova per supportare questa mia affermazione». Lasciando però trapelare che forse qualche prova ce l’aveva eccome.
Nell’ottobre 2002 il presidente afghano Hamid Karzai dichiarò alla CNN: «Giungerei a credere che Bin Laden probabilmente sia morto».
Nel novembre 2005 il senatore Harry Reid ha rivelato che gli era stato detto che Bin Laden poteva essere deceduto nel corso del terremoto in Pakistan nell’ottobre dello stesso anno.
Nel settembre 2006 i Servizi Segreti francesi fecero trapelare un rapporto che suggeriva che Bin Laden fosse stato ucciso in Pakistan. Il 2 novembre 2007, l’ex primo ministro pachistano, Benazir Bhutto, dichiarò all’inviato di Al-Jazeera, David Frost, che Omar Sheikh aveva giustiziato Osama Bin Laden, come vedremo più approfonditamente tra poco.
Infine, nel maggio 2009 il Presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, ha confermato che le sue «controparti nelle agenzie dei servizi segreti americani» non erano venute a sapere più nulla su Bin Laden negli ultimi sette anni, aggiungendo: «Non penso che sia vivo». Mentre, secondo la nuova versione “ufficiale” americana, Bin Laden avrebbe trovato rifugio proprio in terra pakistana…

Per i Servizi Segreti francesi Al Qaeda non esiste

I Servizi Segreti Francesi sostengono dal 2010 che Al Qaeda non esiste più dal 2002. Lo aveva dichiarato il capo dei Servizi Segreti francesi al Senato della Repubblica francese, il 29 gennaio 2010.
Un anno e mezzo fa Allain Chouet, già capo della DGSE (Direction Générale de la Sécurité Extérieure, il controspionaggio francese) sostenne: «Come molti miei colleghi professionisti nel mondo, ritengo, sulla base di informazioni serie e verificate, che Al Qaeda sia morta sul piano operativo nelle tane di Tora Bora nel 2002 […] Sui circa 400 membri attivi dell’organizzazione che esisteva nel 2001, meno di una cinquantina di seconde scelte (a parte Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri che non hanno alcuna attitudine sul piano operativo) sono riusciti a scampare e a scomparire in zone remote, vivendo in condizioni precarie, e disponendo di mezzi di comunicazione rustici o incerti». E ha concluso: «Non è con tale dispositivo che si può animare una rete coordinata di violenza politica su scala planetaria. Del resto appare chiaramente che nessuno dei terroristi autori degli attentati post 11 settembre (Londra, Madrid, Sharm el-Sheik, Bali, Casablanca, Bombay, eccetera) ha avuto contatti con l’organizzazione». Il colpo di coda è stata l’accusa diretta ai Media di fomentare l’odio verso i musulmani: «a forza d’invocarla di continuo, certi Media o presunti ‘esperti’ di qua e di là dell’Atlantico, hanno finito non già per resuscitarla, ma di trasformarla come quell’Amedeo del commediografo Eugene Ionesco, quel morto il cui cadavere continua a crescere e a occultare la realtà, e di cui non si sa come sbarazzarsi».
Le accuse di Chouet alla mancanza di eticità professionale dei Media non sono da commentare. Sono sotto gli occhi di tutti. Ma se a svelare i meccanismi a cui siamo sottoposti quotidianamente è il Capo dei Servizi Segreti, magari il biasimo potrebbe far riflettere alcuni giornalisti e portare a un ripensamento del proprio servile operato.
In questo senso Al Qaeda appare sempre più come lo spauracchio evocato da Governi o giornalisti quando occorre per giustificare una “guerra infinita” in Medio Oriente che è costata agli USA 2 mila miliardi di dollari ma che è sempre più necessaria per accaparrarsi le risorse energetico petrolifere del Nord Africa, cercando di battere sul tempo la Cina.
E il prossimo passo, sarà la Siria.

Una mossa propagandistica

Il modo di sbarazzarsi mediaticamente dello spettro dello sceicco più ricercato al mondo l’ha trovato invece Obama, un modo per risalire nei sondaggi e per allontanare i problemi del conflitto in Libia. Il momento non poteva essere migliore. La sua campagna elettorale inizierà sull’eco dell’acclamazione pubblica per la morte di Bin Laden.
A pensarla così il Capo dei Servizi Segreti Iraniani che ha dichiarato pubblicamente che il blitz dei Navy Seals sarebbe solo una montatura elettorale per far risalire il Presidente USA nei sondaggi, perché Bin Laden sarebbe morto da tempo, e nell’ambiente Medio ed Estremo Orientale la cosa sarebbe risaputa.
Politicamente Obama non avrebbe infatti potuto far meglio. Sebbene tutte le promesse della scorsa campagna elettorale siano state disattese, punto per punto, come spiego nel mio saggio, L’altra faccia di Obama, edito in Italia da Infinito Edizioni. Dopotutto Obama è il prodotto delle lobbies di Wall Street e la sua immagine di Messia multirazziale è il frutto di una magistrale operazione di marketing.
A distanza di soli tre anni la percezione che il mondo ha di Barack Obama è cambiata. Il suo modo di esprimersi gentile, pacato, cantilenante, è rimasto intatto, così come il suo carisma che ha ammaliato milioni di persone in tutto il mondo. Ci aspettiamo grande sfoggio della sua abilità oratoria anche nella prossima campagna elettorale, che, anche se non formalmente, è già iniziata.
Ma allora come adesso, dietro le promesse si è insinuata l’ombra del vecchio. Dell’establishment che non ha colore politico, che raccoglie i soliti volti di democratici e repubblicani: la Casta americana. Dietro i corposi finanziamenti della più dispendiosa campagna presidenziale della storia, si celano infatti gli assegni delle lobby. Gli speculatori di Wall Street. Le grandi Banche, che avrebbero goduto del salvataggio statale a scapito dei contribuenti. Le multinazionali del petrolio, degli OGM, della Difesa. Le Compagnie di Assicurazione.
Molti si sono accorti che il cambiamento prospettato nella passata campagna elettorale stenta a concretizzarsi, nonostante l’insediamento della nuova amministrazione democratica. Dopo un decennio di Governo Bush le aspettative dell’elettorato erano troppo alte e la pazienza esaurita, oppure il nuovo Presidente ha davvero tradito le promesse di cambiamento? Questa meteora del firmamento americano ha folgorato senza mezze misure milioni di persone dagli USA all’Europa, senza che queste potessero avere tempo e modo di domandarsi chi fosse realmente il Senatore dell’Illinois con un programma politico assolutamente elementare ma “accattivante” che della speranza e del cambiamento ha fatto il suo mantra e il suo cavallo di battaglia. Che ora sembra sempre più in continuità con il Governo Bush.
Peccato che al culmine della crisi finanziaria Obama si è schierato dalla parte delle Grandi Banche e delle lobby di Wall Street a scapito della classe media spazzata via dalla bolla finanziaria.
Perché ha fatto inoltre marcia indietro sulla rivoluzione verde?
Perché ha trascinato il Paese in un terzo conflitto e non ha apportato modifiche al Patriot Act per tutelare la privacy dei cittadini?
Sul fronte guerra e sicurezza, non sarà certo la morte presunta o tale dello sceicco a riportare pace nelle case americane. Anzi. Le minacce di nuovi attentati per vendicare la morte di quello che i fanatici consideravano un “santo” si moltiplicano. Così come si affaccia la possibilità di futuri attentati messi in atto da individui isolati e non da organizzate cellule terroristiche.
Ma l’eliminazione fisica del ricercato numero renderà sicuramente più dolci i sonni di molte famiglie americane. E’ come se il padre di famiglia abbia scacciato il Babau che si nascondeva sotto il letto per rassicurare la figlioletta di poter dormire sonni tranquilli. Ma, come insegnava Dino Buzzati, e come insegna la storia, non è propriamente l’Uomo Nero delle fiabe e degli incubi dei bambini il vero pericolo…

La verità di Benazir Bhutto

Per Barack Obama Bin Laden sarebbe morto il 1 maggio 2011. Per il medico personale di Osama il decesso sarebbe avvenuto due giorni prima. Per uno dei figli di Osama sarebbe ancora vivo.
Secondo quanto dichiarato alla BBC da Benazir Bhutto, lo sceicco del terrore sarebbe morto invece almeno quattro anni or sono. (http://www.lettera43.it/video/14673/bin-laden-e-morto-ma-era-il-2007.htm).
La prima premier donna pakistana, morta in un terribile attentato il 27 dicembre 2007 ebbe infatti il coraggio o forse la sfrontatezza di dichiarare in un’intervista televisiva condotta da David Frost che Osama Bin Laden era stato ucciso da Omar Sheik. L’intervista, visibile su internet, è andata in onda il 2 novembre 2007. Al centro del confronto con Frost i motivi e i probabili responsabili del fallito attentato alla Bhutto che era avvenuto pochi giorni prima, il 18 ottobre. Nel denunciare i responsabili del terrorismo in Pakistan, il premier dopo appena 5’30’’ di intervista nomina Omar Sheik, ex collaboratore dell’ISI, il servizio segreto pakistano, aggiungendo per descriverlo, «the man who murdered Osama Bin Laden», l’uomo che ha assassinato Osama Bin Laden. Rullo di tamburi. Benazir Bhutto si lancia in una dichiarazione del genere e David Frost, reso celebre dalla sua intervista fiume a Richard Nixon in merito allo scandalo Watergate, con 40 anni di esperienza alle spalle… non dice niente. Neanche un aggrottare di sopracciglio. Nulla. Lascia continuare la premier senza interromperla e continua incurante della rivelazione del secolo. Se fosse stato un errore (la Bhutto avrebbe nominato Osama bin Laden intendendo però riferirsi a un’altra vittima di Sheik, il giornalista David Pearl) come hanno cercato di farlo passare dalla redazione dell’emittente televisiva, avrebbe dovuto almeno interromperla con garbo abbozzando una battuta o qualcosa di simile. Invece il nulla. E poi Benazir parla con calma e cita i nomi con precisione. Non sembra che possa trattarsi di un lapsus. Inoltre l’Omar Sheik indicato dalla Bhutto è lo stesso che secondo la versione ufficiale USA avrebbe consegnato 100mila dollari a Mohammed Atta qualche giorno prima dell’11 settembre.
Forse le prove disseminate ovunque che dietro l’attentato ci sia un’altra verità diversa da quella che Bush e il Pentagono ci hanno voluto propinare è proprio qua. Davanti a noi. E la Bhutto sembrava conoscerla bene.
Era il 2 novembre. Un mese e mezzo dopo Benazir Bhutto moriva in un attacco suicida a Rawalpindi, a circa 30 km da Islamabad. Vicino al luogo dove, secondo le fonti USA, Osama avrebbe vissuto dal 2003. Ma Al Qaeda, accusata di aver organizzato l’attentato, negò con risolutezza il suo coinvolgimento, nonostante un’intercettazione telefonica del leader dei talebani Baitullah Mehsud con gli uomini che avrebbero pianificato l’omicidio. Possibile che Mehsud fosse così ingenuo da congratularsi al telefono con Maulvi Sahib per quello che definisce soltanto “l’assassinio della donna”, senza fare il nome della Bhutto ma dichiarando: «È stata una prova formidabile. Sono stati veramente dei bravi ragazzi quelli che l’hanno uccisa», riferendosi a tali Ikramullah e Bilal. Dei militanti così inesperti da parlare dei dettagli di un attentato con tanto di nomi al telefono non potrebbero andare molto lontano, e con essi l’intera organizzazione terroristica. Che invece ci vogliono far credere esista ancora e tenga in scacco il mondo intero.
Il Presidente Musharraf, indicato invece come il mandante dell’omicidio dal marito della Bhutto, si è visto costretto a dimettersi in diretta nazionale il successivo 28 agosto 2008. Ma qualcosa deve saperlo anche lui dato che a quel tempo Sheik lavorava per i servizi segreti pakistani e soltanto l’anno prima, nel 2006, nelle sue Memorie, Musharraf aveva ammesso di sospettare che Omar Sheik avesse lavorato per i Servizi Segreti Britannici, MI 6. Il che ci condurrebbe verso un’altra pista, molto più inquietante, dietro la strage delle Torri Gemelle. Gran Bretagna e USA. Avvalorata dalle cariche di esplosivi piazzati in vari piani dei grattacieli le cui tracce sarebbero state viste e udite da numerosi testimoni.
Forse è l’ora di riscrivere la storia.
Non per revisionismo.
Non per la solita controinformazione.
Ma per la verità.
Per rispetto alle famiglie delle vittime.
Per rispetto all’intelligenza di tutti noi.
Per il nostro futuro.

Malato sì, malato no

A giudicare dai farmaci trovati nella sua abitazione ad Abbotabad, non sembra che Osama Bin Laden fosse gravemente malato, come invece era noto da tempo. Nel 2001, proprio alla vigilia degli attentati, era stato ricoverato in una clinica in Pakistan per farsi curare ed era stato sottoposto a dialisi. A riferirlo era stata nel 2002 la CBS citando fonti dell’intelligence pakistana secondo le quali il leader di Al Qaeda si sarebbe trovato nell’ospedale militare di Rawalpindi la notte tra il 10 e l’11 settembre 2001. Mentre il Presidente Musharraf si sarebbe detto convinto della morte di Bin Laden per problemi renali. Lo sceicco del terrore sarebbe morto perché, costretto alla fuga dopo l’attacco al World Trade Center, non sarebbe stato più in grado di sottoporsi a dialisi.
Dal momento del ricovero sembra infatti che non avesse potuto più fare a meno dei macchinari per la dialisi, di cui, però, non c’è traccia nel compound ad Abbotabad. Dalla ricostruzione dei Navy Seals e dalle poche medicine trovate poteva al massimo avere problemi di stomaco, forse ulcera e pressione alta, ma niente di cronico o di preoccupante. Il che contrasta con le informazione che avevamo certe su Bin Laden.
Un’altra ombra sulle operazioni USA che ripropone il dubbio su chi ci fosse realmente in quel villino…
Vi viveva davvero Osama Bin Laden con la famiglia, oppure un sosia, o ancora, non essendo mai uscito e non essendo mai stato visto da nessuno nel luogo, in quel compound abitava una famiglia che doveva “sostituire” il reale Osama, morto invece da almeno quattro anni, come alcune fonti autorevoli suggeriscono da tempo?

Obama got Osama

Ricapitolando: secondo il premier pakistano Benazir Bhutto Bin Laden sarebbe stato ucciso prima del 2007 da Omar Sheik, già autore dell’omicidio del giornalista David Pearl.
Per l’ex Presidente pakistano Musharraf, invece, Osama, già gravemente malato ai reni, sarebbe morto nel 2002 perché costretto alla fuga dopo l’attacco dell’11 settembre e impossibilitato quindi alla dialisi. Versione simile a quella di Allain Chouet e del Capo dei Servizi Segreti Iraniani, secondo i quali i componenti di Al Qaeda sarebbero morti nelle tane di Tora Bora.
La versione USA – con tutte le sue contraddizioni e in tutte le sue molteplici e variopinte versioni - la conosciamo molto bene. Manca comunque il corpo che è stato gettato in mare.
Per credere che sia stato ucciso dai Navy Seals il 1 maggio 2011 bisogna fare un atto di fede esattamente come per credere alla defunta Benazir Bhutto o a Musharraf. Non vedo perché le loro versioni valgano meno di quella di Obama. Non si può certo credere che la parola di un Presidente americano sia necessariamente vera: l’abbiamo notato con tutte le menzogne di George W. Bush. E anche Obama ci ha raccontato un sacco di bugie, a partire da tutte le promesse elettorali che sono state puntualmente disattese. E guarda caso, ora che si prepara la sua ricandidatura per le elezioni presidenziali USA del 2012, la notizia della cattura e dell’uccisione del nemico numero uno ha riportato speranza nell’elettorato deluso. Tanto da aver visto non solo gente in tripudio intonare di nuovo YES WE CAN! ma addirittura la diffusione di gadget con la scritta OBAMA GOT OSAMA, per celebrare l’uccisione del Mostro.

Dunque, che cosa credere?
Né gli Stati Uniti, né il mondo, saranno più sicuri con la morte di Bin Laden. Egli era il fondatore di Al Qaeda ma da tempo non ne era più il capo. Era diventato semmai il simbolo del jihad globale per centinaia, migliaia di militanti. Pensare che dallo scalcinato compound in Pakistan detenesse il controllo della rete terroristica è ridicolo. Gli USA stanno aumentando il livello di allerta e stanno spingendo tutte le loro ambasciate nel mondo affinché prendano le dovute precauzioni contro eventuali nuovi attacchi.
Penso che l’importante sia non credere aprioristicamente a niente e a nessuno ma formarsi la propria opinione sentendo le diverse fonti e passandole al vaglio della propria coscienza. Per questo non vi chiedo di “credere” nemmeno a me. Vi suggerisco di leggere, ascoltare, e interrogarvi. Non escludete nulla a priori perché sembra pazzesco.
Perché, come ricordava Karl Popper, «il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza».