lunedì 22 dicembre 2003

ALCHIMIA, SPIRITISMO E TRADIZIONE NELLE OPERE DI GUSTAV MEYRINK

di Enrica Perucchietti


Sposare un altro significa rimanere due. Contrarre un matrimonio è qualcos’altro; significa diventare un’unica cosa. Quello che rimane doppio, invecchia e muore, perché sta al di fuori del presente segreto


(Gustav Meyrink, La casa dell’alchimista).

Sublimazione letteraria del suo vissuto e delle teorie “tradizionali”, l’opera dello scrittore austriaco Gustav Meyrink è legata a filo doppio alla sua vita e alle sue esperienze iniziatiche.
Dopo il ritrovamento del cadavere del figlio Harro, suicidatosi a 24 anni in seguito a un incidente stradale che lo aveva costretto su una sedia a rotelle, Meyrink, straziato dal dolore e da tempo malato, si lascia morire all’alba del 4 dicembre 1932 seduto a petto nudo nella sua camera con la finestra aperta, incurante del freddo. La sua morte lascia incompiuto il romanzo La casa dell’alchimista, di cui rimangono soltanto tre bellissimi capitoli e un exposé che fanno intuire la grandezza di quello che sarebbe stato un altro capolavoro se il dolore per la perdita del figlio non lo avesse stroncato.
Meyirink nasce a Vienna il 19 gennaio 1868; è figlio naturale dell’attrice di corte Maria Wilhelmine Adelaide Meyer e del ministro del Wurttemberg Karl Freiherr Varnbuler von und zu Hemmingen. Il padre, nonostante viva a Berlino con la famiglia legittima, finanzierà i suoi studi. L’indifferenza della madre nei confronti del figlio ne suscita un odio profondo; egli trascorre infatti l’infanzia a Monaco con la nonna materna. Maria Meyer viene spesso scambiata con un’altra attrice teatrale, Clara Meyer, che era ebrea: da qui l’equivoco che Meyrink fosse ebreo.
Nel 1883 si trasferisce a Praga, la città amata e al tempo stesso odiata che sceglierà come ambientazione per molti suoi romanzi e racconti; si iscrive all’Accademia commerciale e, a 21 anni, fonda, in società con il nipote dello scrittore Christian Morgenstern, la banca “Meyer und Morgenstern”. In questo periodo il giovane suscita le antipatie della borghesia benpensante praghese, conducendo una vita dissoluta tra avventura amorose, circolo-canottieri, scacchi e duelli d’onore.
La leggenda vuole che a 24 anni (proprio come il figlio Harro) le stravaganze della vita praghese gli andassero strette e, in piena crisi esistenziale meditasse il suicidio; al momento di premere il grilletto – così riferisce nello scritto autobiografico La Guida – qualcuno avrebbe fatto scivolare sotto la sua porta un opuscolo occultista dal titolo La vita dopo la morte: quest’episodio apparentemente casuale lo distoglie dall’intento del suicidio, risvegliando nel futuro scrittore “un’ansia ardente di conoscenza, una sete struggente, inesauribile” verso ciò che trascende la mera quotidianità. Inizia così la sua ricerca nel campo esoterico che però, in principio, più che una precisa ricerca si configura come un vagare sincretico nel labirinto delle arti occulte. Il giovane Gustav si avvicina così a tutto ciò che viene fatto passare per “sapere esoterico”: il suo interesse si rivolge allo spiritismo, allo studio delle dottrine esoteriche, in particolare orientali, all’alchimia spirituale, alla magia, ai fenomeni paranormali, allo yoga sperimentando sempre tutto in prima persona, con lo stesso fervore che ne aveva caratterizzato la sfrenatezza. Studia la Teosofia di Madame Blavatsky e apprende i primi rudimenti dello yoga alla Easter School di Annie Besant. Frequenta circoli spiritistici, credendo inizialmente di avervi trovato la Via; nel 1891 fonda insieme a Karl Weinfurter la “Loggia della stella blu”.
Dieci anni dopo, a causa di un incidente sportivo viene ricoverato nel sanatorio Lehmann di Dresda, dove incontra A. H. Smitz. Costui, riconoscendogli un’incredibile facilità nel raccontare storielle, gli suggerisce di provare a scrivere con la stessa freschezza con cui parla: è così che il 21 ottobre 1901 viene pubblicato sulla famosa rivista satirica “Simplicissimus” il suo primo racconto Il soldato bollente. Tra il 1901 e il 1908 vengono pubblicate trentotto novelle che rendono il nome di Meyrink famoso e apprezzato nell’ambiente letterario. I suoi racconti fantastici, macabri e grotteschi mostrano l’accanirsi dello scrittore contro la borghesia praghese e l’ottusa mentalità militare.
La richiesta di divorzio dalla prima moglie Hedwig Aloysia Certl (l’altera Aglaia del Domenicano Bianco, il romanzo pubblicato nel 1921) scatena però le ire della borghesia che trama contro di lui: nel 1902 viene accusato ingiustamente di usare lo spiritismo nella sua professione e incarcerato; dopo due mesi e mezzo viene riconosciuto innocente e rilasciato ma la sua carriera è definitivamente stroncata. La detenzione lo ha rovinato finanziariamente e ha inoltre causato l’aggravarsi della sua malattia: solo grazie alla dura disciplina dello yoga scampa la morte. Questo episodio verrà descritto nel Golem, dove il protagonista, Athanasius Pernath, viene arrestato ingiustamente subendo la tortura del carcere praghese.
Nel 1904 si trasferisce a Vienna dove riesce finalmente ad ottenere il divorzio dalla moglie e a sposare in seconde nozze Philomena Bernt, figlia di un noto banchiere e cugina di Rainer Maria Rilke. Nel 1906 e nel 1908 nascono rispettivamente la figlia Sybille Felicitas e il figlio Harro Fortunat.
Nel 1915 esce il suo primo e più famoso romanzo, Il Golem, che, con 220.000 copie vendute, segna l’apice del successo di Meyrink. Tra i suoi ammiratori, però, molti non apprezzano quella che viene considerata un’inopportuna svolta mistica. In questo romanzo che gli diede celebrità e a cui si ispirerà il regista Paul Wegener per l’omonimo celebre film, trovano spazio gli insegnamenti cabalistici, la leggenda del golem e del suo creatore, il mitico rabbino Loew, i tarocchi intesi simbolicamente a illustrare sia le fasi del processo alchemico che le avventure del protagonista, magia, misticismo e, infine, il tema più caro alla narrazione meyrinkiana: il mito dell’ermafrodito come unione perfetta dell’elemento maschile e femminile.
Nel 1916 esce Il Volto verde, che descrive la disciplina dello yoga, le tecniche di concentrazione e il pranayama (ossia il controllo del respiro e il conseguente rallentamento cardiaco) atti a potenziare il dominio della mente sul corpo, a risvegliare i poteri magici insiti nell’uomo e a conseguire l’immortalità. L’anno successivo viene pubblicato La notte di Valpurga, il più visionario dei suoi romanzi, che unisce al misticismo la più mordace delle critiche sociali. Nel 1921 esce Il Domenicano Bianco, un romanzo ispirato al taoismo e al sapere tradizionale, che si nutre delle teorie orientali sull’alchimia spirituale. Due anni dopo viene pubblicato il suo ultimo, e più discusso, romanzo completo, L’angelo della finestra occidentale, che vede come protagonista il mago rinascimentale John Dee. Questo libro racchiude la più completa e sistematica critica di Meyrink allo spiritismo, accusato di distogliere l’uomo dalla Verità promettendogli una conoscenza illusoria che lo trascina invece in un vortice di menzogne e perdizione. Meyrink riconosce che la Verità non può che situarsi in interiore homine, rifiutando qualsiasi rassicurante soluzione trascendente né tanto meno fideistica. Meyrink, come Evola, crede in una via “pagana”, “eroica” al Divino: per lui l’iniziato è un Dio. La divinità è latente nell’uomo in quanto l’anima è quella scintilla divina che, se risvegliata, conduce l’uomo a farsi dio.

L’angelo della finestra occidentale
Julius Evola, che curò le edizioni italiane dei romanzi di Meyrink e che per primo lo fece conoscere in Italia esponendo il suo pensiero in una serie di articoli a partire dal periodo del “Gruppo di Ur” (poi raccolti in Introduzione alla Magia), riferisce che, secondo la leggenda, Meyrink sarebbe entrato in possesso di speciali manoscritti relativi alla vita di John Dee, forse addirittura i suoi diari, e che, proprio sulla base della materia biografica in essi contenuti, avesse sviluppato la sua narrazione. Non è possibile stabilire la veridicità dei molti dettagli del romanzo riguardanti la vita di John Dee che non trovano riscontro nella sua biografia ufficiale; può darsi che alcuni dei dati inseriti da Meyrink siano stati semplicemente inventati, come l’amore per la regina Elisabetta, l’alta nobiltà dei Dees e la loro discendenza da Hoel Dhat, la scarcerazione di Dee - arrestato per azioni magiche contro la regina Maria - per intervento della ancora principessa Elisabetta. Storici sono invece i suoi viaggi, l’incontro e la collaborazione con Kelley, la fuga dall’Inghilterra nel 1548 perché sospettato di congiure politiche, il rapporto - non ben precisato - con l’imperatore Rodolfo d’Asburgo e con Massimiliano II, il dissidio sopravvenuto in seguito fra il mago e Kelley, l’incendio del castello di Mortlake la sua morte in miseria nel dicembre del 1608; il romanzo trae comunque linfa dai temi cari al pensiero tradizionale, la magia, il tantrismo, la critica allo spiritismo, l’iniziazione, l’alchimia, la ricerca della condizione umana perfetta attraverso l’amore e l’assorbimento del principio femminile in quello maschile: l’androginia.

Eredità spirituale
La trama, romanzesca o verosimile che sia, s’incentra su un motivo che ritroviamo già nel Domenicano Bianco e che, come ha più volte chiarito Evola, non va confuso con il tema della reincarnazione: si tratta della concezione secondo la quale ogni essere umano, lungi dal rappresentare un “Io” autonomo, sarebbe invece la rappresentazione contingente di una sorta di demone famigliare, anteriore e superiore alla sua esistenza finita in terra e che può fornire la base e la continuità di trasmissione di coscienza, ovvero la continuità di un destino da adempiere, di una “personalità” che deve essere conseguita, attivamente conquistata attraverso la trasmissione di un particolare “destino” da un ramo all’altro della stirpe, da un antenato a un altro, lungo le varie generazioni, verso il compimento di questa eredità spirituale. Per la discendenza dei Dees, come per tutti i personaggi dei romanzi dei Meyrink, questo destino si configura come il conseguimento dell’androginia spirituale, ovvero l’assorbimento del principio femminile in quello maschile. Da solo, infatti, nessun uomo può raggiungere la Vita vera: egli ha bisogno di una compagna. Soltanto le forze congiunte dell’uomo e della donna possono rendere possibile il “Risveglio” e la conseguente immortalità. La “via del sangue” può dunque condurre a una serie di esseri imparentati fra loro che, in realtà, non sono altro che un unico essere che si ripete, incarnandosi da un avo al successivo discendente, finché una manifestazione terrena di questo ceppo famigliare non riesca ad adempiere al proprio destino, risvegliandosi e costituendo così il proprio “Io” (l’Io della stirpe): solo in questo caso il ciclo si chiude con la genesi magica di colui che è risorto in questo mondo e nell’altro, ossia che ha valicato i confini della Vita ed è divenuto un Vivente in senso eminente. Nel momento del “Risveglio”, ossia dell’unione tra l’ultimo ramo della progenie con il primo antenato, la stirpe si ricongiunge chiudendo “l’anello dell’eternità”. Per Meyrink il corpo dell’uomo è davvero “la casa in cui dimorano i suoi avi”, il conduttore dei semi che il sangue trasmette da un ramo all’altro della stessa progenie.
Il 1927 è l’anno che vede la conversione del romanziere austriaco al buddhismo; cinque anni più tardi la sventura si abbatterà sulla sua famiglia portandolo, sulle orme del figlio, al suicidio.

Praga città magica
La città magica di Praga rivive nei suoi romanzi, nella descrizione del ghetto ebraico, nell’atmosfera surreale delle leggende praghesi. Le sue opere s’ispirano solo esteriormente alla letteratura gotica e fantastica di Hoffmann e Poe, in quanto riprendono tematiche ermetiche più vicine al nucleo occulto del Necronomicon di Lovecraft che ai classici del terrore.
Le storie di Meyrink, dominate da visioni oniriche, spettri, doppi, avventure rocambolesche, intrecciano al fantastico un reale contenuto “iniziatico”, come dichiarò Evola in sua difesa, un sapere ermetico, alchemico, cabalistico. La critica all’ipocrisia borghese si tinge di grottesco, i personaggi vivono stritolati dall’angoscia del ghetto, soffocati dal peso di un’esistenza senza senso, dominati da eventi magici apparentemente inspiegabili, che acquistano senso alla fine dei racconti.
Alla base dell’opera di Meyrink si pone la “Dottrina del Risveglio”, che divide l’umanità nei ”Viventi”, i Risvegliati, ossia coloro che hanno raggiunto una superiore forma di esistenza, che sono stati iniziati al sapere e quindi svegliati alla vita vera, e i dormienti, la grande massa degli uomini, che non posseggono un vero Io, ma solo un fantasma di esso. Il pensiero di Meyrink riprende la distinzione di Gurdjeff tra la massa di uomini comuni privi di anima, e gli Iniziati che, possedendo il germe dell’immortalità lo hanno sviluppato seguendo pratiche occulte.
Nei suoi romanzi troviamo insegnamenti esoterici espressi a livello simbolico, come nel Golem, e nella Notte di Valpurga o in maniera esplicita come nel Volto verde e nel Domenicano Bianco. Come abbiamo accennato, Meyrink fu un autore molto amato da Evola, che credeva realmente che lo scrittore austriaco fosse stato iniziato al sapere “tradizionale” e fosse in contatto con maestri indù. Non ci è dato sapere nulla riguardo la sua eventuale iniziazione, né alcunché in merito alle misteriose figure di maestri indù che egli avrebbe conosciuto; le notizie sulla vita di Meyrink si confondono tra realtà e leggenda. Egli amava sottolineare che l’origine del suo scrivere erano le sue “visioni”, ossia le immagini inconsce richiamate dalla sua immaginazione attiva e stimolate dalla pratica dello yoga, le cui tecniche di meditazione sono ampiamente descritte in Volto Verde. In un’intervista Meyrink spiegò, infatti, che le avventure dei suoi romanzi erano in realtà “vesti” simboliche che riflettevano proprie esperienze e che i personaggi in realtà egli li “vedeva”.

Critica allo spiritismo
Come abbiamo anticipato, nella giovinezza Meyrink si era interessato alle scienze occulte e alla pratica della magia; per un certo periodo aveva frequentato combriccole di spiritisti, da cui si era velocemente distaccato condannandole aspramente. Nel Domenicano Bianco troviamo infatti una critica feroce allo spiritismo, capace di evocare solo “larve spettrali”, entità demoniache che irridono e ingannano l’uomo assumendo immagini di defunti cari a coloro che le evocano: «è la forza impersonale del Male ad evocare cose prodigiose grazie alle leggi mute della natura». Come abbiamo visto, per Meyrink la “personalità” non è che un miraggio, al più può essere intesa come l’ideale di un fine da realizzare: da ciò egli desume che, non potendo parlare di “anima” in senso stretto, attraverso lo spiritismo si cercherebbe invano di evocare le “anime” dei morti, e che «se gli spiritisti sapessero chi sono realmente coloro che obbediscono ai loro richiami, forse morrebbero di paura».
Le evocazioni delle sedute spiritiche sono opera della “Testa di Medusa”, “simbolo del potere pietrificante” che dietro false dottrine spinge l’uomo verso l’abisso della morte; dietro le parole degli spiriti ingannatori si cela infatti «la profezia di terribili sciagure […] la lingua biforcuta di una vipera delle tenebre. Parla del Salvatore e in realtà intende Satana». Lo spiritismo è definito da Cristoforo, il protagonista del Domenicano Bianco, una “voragine di disperazione”: è simile «ad un’epidemia di peste che inonderà l’umanità […] quando vedremo i morti risorgere dalle tombe e mentire, mentire, mentire, in modo più spudorato di ogni altra creatura della terra, perché sono entità demoniache illusorie, sono embrioni, generati da un accoppiamento infernale!».
La critica allo spiritismo di Meyrink è analoga a quella dei maggiori interpreti della Tradizione Primordiale, Julius Evola e René Guénon. In Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932, Evola svilupperà la propria condanna ai fenomeni medianici in termini identici a quelli dello scrittore austriaco, definendo la medianità come: «un metodo cosciente per ottenere o accentuare la disgregazione dell’unità interna della persona. Avendo reso libero dal corpo un certo gruppo di elementi più sottili, l’uomo diviene l’organo per la incarnazione e poi per la manifestazione nel nostro mondo (che altrimenti resterebbe loro precluso) di forze ed influenze di natura estremamente varia, ma sempre subpersonali, che il medium non può in alcun modo controllare giacché la sua coscienza o coglie soltanto degli effetti, ovvero scivola addirittura nel sonno, nella trance, nell’automatismo, nella catalessi».
Lo spiritismo è per Evola, come per Meyrink, l’avanguardia del nuovo spiritualismo; il medium si fa strumento per l’incarnazione di forze oscure e impersonali che «aleggiano ai margini della realtà, da cui sono escluse», in quanto egli fa da medium, cioè diviene un tramite per quelle forze, in modo che esse possano esercitare un’azione infernale sul nostro mondo e sulle nostre menti, che contro di esse restano indifese giacché manca la «controparte di quelle influenze di senso opposto, cioè effettivamente sovrannaturali, che le religioni, quando non si riducevano, come oggi, ad un complesso di esigenze sentimentali e di costruzioni teologiche, sapevano attrarre e innestare invisibilmente ai nostri pensieri, alle nostre intenzioni, alle nostre azioni». Lo spiritismo, in quanto trascina la coscienza verso il subnormale, l’impersonale, aprendosi a forze che non sono al di sopra dell’uomo ma al di sotto, è da intendersi come l’opposto dello yoga e dell’alchimia che, invece di “ridurre” la coscienza, la sviluppano in senso iniziatico, metafisico, trascendente, trasformandola in “supercoscienza”.
Dopo un inizio incerto tra gli spiritisti, Meyrink, grazie all’incontro con maestri indù e ambienti cabalistici, giunse a conoscenza del vero nucleo sapienziale e, secondo Evola, «fu in grado di formulare una concezione complessiva della vita ad orientamento magico e iniziatico che, sebbene esposta in romanzi – romanzi aventi alto valore artistico – per la sua chiarezza e autenticità trova difficilmente riscontro in opere dedicate specificamente a questa materia» (Evola, 1977: 102).
La Dottrina del Risveglio ha alla base l’idea che immortale sia soltanto l’uomo svegliato, l’adepto che ha percorso la via della Vita, anche se sembra che Meyrink considerasse necessaria una sorta di “vocazione” o “predestinazione”, dovuta al richiamo del sangue, degli avi che albergano nel corpo e nello spirito di ogni uomo, per avviarsi verso il cammino del Risveglio.

Il Domenicano Bianco
Il Domenicano Bianco è un romanzo metafisico, una storia iniziatica colma di insegnamenti spirituali e alchemici; il protagonista, Cristoforo, è chiamato a ricevere la conoscenza e a diventare un maestro supremo, a far parte della “Catena dei Viventi”, a trasfigurare il proprio corpo in spirito e ascendere a una dimensione superiore dell’esistenza, attraverso un cammino denso di pericoli e prove. I maestri dell’ordine segreto, ossia coloro che hanno attinto la sapienza e “varcato la soglia”, si sono incamminati dall’infinito all’eternità, sono diventati «l’anello invisibile di una catena, costituita da mani invisibili, che non si lasceranno mai fino alla fine dei giorni». È questo un altro tema centrale che esprime la credenza nella Tradizione primordiale: l’esistenza di un “Ordine” di Adepti, gli “Svegliati” appartenenti alla “catena dei Viventi”, esseri che risiederebbero in un centro occulto, situato forse in Tibet o India, da cui controllerebbero in maniera invisibile il destino dell’umanità. Questo tema riprende il mito del “Re del Mondo”, che, dalla città sotterranea di Sambhala, capitale del regno occulto della “Caverna” (Agartha), guiderebbe, da tempi immemorabili, il destino e le vicende del mondo, leggenda tibetana raccontata da Guénon, Sant-Yves d’Alveydre, Helena Blavatsky e Ossendowsky. Allo stesso modo anche il protagonista del Volto verde, Fortunat Hauberisser, decide di scrivere le proprie memorie per testimoniare la sua ricerca interiore e la scelta di divenire un anello di quella invisibile catena di iniziati.
Lo spirito di questa comunità di saggi illuminati «pervade tutta la terra; esso è sempre onnipresente […] chi è diventato cima e porta in sé inconsapevolmente la radice primordiale, entra consapevolmente in questa comunità sperimentando su di sé quel mistero che si chiama “il dissolvimento con il corpo e con la spada”». Esso è un procedimento cinese, a cui sono stati resi partecipi migliaia di uomini, sebbene continui a rimanere misterioso. Meyrink distingue il “dissolvimento con il corpo” dal “dissolvimento con la spada”; nel primo caso il corpo del defunto diviene invisibile e «costui si eleva ad immortale», mentre nel secondo caso, «al posto della salma del defunto rimane nella bara una spada […] I due “dissolvimenti” sono un’arte che, coloro che sono più progrediti su questa via, comunicano agli adepti che ne sono degni». Uno degli adepti che ha conseguito la trasfigurazione è il leggendario Tung Tschung-Khiu: «durante gli anni della sua giovinezza praticò la respirazione del soffio spirituale, purificando in questo modo le sue forme. Fu accusato ingiustamente e messo in catene in prigione. Il suo cadavere si dissolse e sparì».
Sebbene inserito in narrazioni fantastiche, il tema della respirazione controllata cinese verrà ripresa e approfondita scientificamente da uno dei massimi storici delle religioni, sicuramente il più famoso, Mircea Eliade, nelle sue opere sull’alchimia orientale (Alchimia Asiatica, Tecniche dello Yoga, Yoga: immortalità e libertà, Arti del metallo e alchimia, Mito dell’alchimia), sotto il nome di «respirazione controllata – lianqui, termine interpretabile come “trasmutazione della respirazione”», «pratica taoista della “respirazione embrionale”». Un altro elemento in comune alla trattazione dei due autori è il cinabro, che Eliade definisce «sostanza dotata di un potere talismanico e particolarmente apprezzato per le sue virtù rigeneratrici. Il suo colore rosso era ricco di proprietà vitali, essendo simbolo del sangue – il principio della vita – e svolgeva per questo un ruolo fondamentale nell’accesso dell’immortalità»; fin dall’antichità si credeva che il cinabro, «messo sul fuoco […] producesse mercurio […] “l’anima di tutti i metalli”» e per questo veniva utilizzato nelle tombe dei ricchi con lo scopo «di assicurare loro l’immortalità». Come nel caso dell’oro, della giada e delle perle, che venivano utilizzate dai cinesi come ornamenti, sia per il loro valore simbolico, sia per il principio yang di cui erano dotate, il cinabro, nel Domenicano Bianco, è il colore delle vesti degli iniziati e dà il nome al sacro “Libro Color Cinabro”, che racchiude il segreto del sapere alchemico: l’immortalità. Solo colui al quale esso si dischiuderà rivelando i propri segreti «non lascerà nessun corpo dietro di sé, si porterà nel mondo dello spirito un lembo di materia e vi si dissolverà. In questo modo egli lavorerà alla Grande Opera dell’alchimia divina; trasformando il piombo in oro, l’infinito in eternità…». Attraverso l’insegnamento alchemico, lo spirito di luce che pervade i corpi degli uomini si consoliderà «finché, divenuto un raggio di luce, inizierà a comprendere le maglie della rete del corpo e si congiungerà con la grande luce […] Nel libro Color Cinabro è scritto: “Qui si cela la chiave di ogni magia. Il corpo non può nulla, lo spirito può tutto. Allontana ciò che è del corpo, allora il tuo Io, quando si sarà completamente denudato, comincerà a respirare come puro spirito”».
Lo scopo dell’alchimia spirituale è risvegliare “consapevolmente” la spiritualità che giace in potenza nell’adepto; seguendo i precetti della “Tradizione” il miste deve trasfigurarsi, spiritualizzando il proprio corpo per dissolversi trapassando in una dimensione più elevata. La trasmutazione conduce all’eternità, alla vita eterna; Cristoforo, superate le prove iniziatiche sprigiona «le forze magiche che giacciono assopite in lui» e viene ammesso nell’Ordine degli illuminati: «mani invisibili afferrano le mie con la presa dell’ordine, mi inseriscono in una catena vivente che si perde nell’infinito. Viene arso ciò che in me c’è di corruttibile, la morte lo trasforma in una fiammata di vita. Rimango eretto in una ignea veste purpurea, mi cinge i fianchi la spada di ematite. Sono dissolto, per sempre, con il corpo e con la spada»: così si conclude Il Domenicano Bianco.

Androginia spirituale
In tutti i suoi racconti iniziatici Meyrink inserisce il “senso occulto dell’unione matrimoniale” in relazione all’androginia e alla tecnica alchemica di realizzazione spirituale. Nel Volto verde, il cabalista ebreo Ismael Sephardi, illustrando la “Via della Vita” che conduce alla forma superiore di esistenza dei “Viventi”, degli adepti alla Dottrina del Risveglio, afferma che l’uomo da solo non è nulla e non può giungere a quella meta: «un uomo da solo non può raggiungere questo traguardo [oltrepassare il “ponte della vita”], ha bisogno di…una compagna. Solamente le forze congiunte dell’uomo e della donna rendono possibile l’impresa. Proprio qui sta il senso più profondo del matrimonio, quel senso che l’umanità ha smarrito da millenni». Questa unione magica rimonta all’androgine, alla realizzazione, platonico-alchemica, dell’essere completo.
Come ha spiegato Evola in un articolo del 1972, l’idea base è che l’istinto sessuale sia la “radice della morte”, ma che non bisogna sforzarsi invano di estirparlo come fanno gli asceti; essi «vogliono conquistarsi quella freddezza magica, senza la quale non si può andare al di là della condizione umana, e fuggono perciò la donna. Eppure solo la donna è colei che è in grado di recare loro aiuto». Il compito dell’uomo non è quindi sfuggire la donna, ma assorbirne il principio femminile, in terra disgiunto da quello maschile, «deve entrare in quest’ultimo e fondersi in uno; solo allora si placheranno tutti gli struggimenti della carne»; solo con questa unione occulta, “che non è priva di pericoli”, si compieranno le nozze alchemiche e si realizzerà quella «freddezza magica che spezza le leggi della terra […] dalla quale sgorga, come dal Nulla, tutto ciò che è in grado di creare il potere dello spirito».
Gli insegnamenti gnostico-esoterici all’origine delle opere di Meyrink si propongono il ritorno all’unità originaria; da un punto di vista psicologico e non “tradizionale”, Alessandra Pepe ha interpretato in chiave junghiana il mito dell’androgino come il tentativo di «realizzare la totalità conscia e inconscia della psiche attraverso l’integrazione del proprio Sé», illustrando, quindi, il tema dell’androginia, consistente nella «conquista del proprio istinto sessuale […] tramite l’unione con il principio femminile presente nell’uomo», come rivisitazione simbolica del junghiano processo d’individuazione. Le donne dei romanzi di Meyrink sarebbero, dunque, personificazioni dell’elemento femminile che l’uomo deve integrare per conseguire l’unità; Meyrink, «prima ancora di Jung, aveva dunque compreso il significato simbolico delle “nozze alchemiche”».
Nel Golem è Miriam, la donna che si unirà in legame eterno con mastro Pernath, a illustrare il tema dell’androginia: «è uno dei miei sogni […] immaginare che la meta ultima è la fusione di due esseri […] in quello che può essere simboleggiato dall’Ermafrodito […] intendo dire l’unione magica dei generi maschile e femminile in un semidio. Come meta ultima! Neanche, non meta ultima, ma principio di una vita nuova, eterna – che non ha fine». E quando il protagonista, ancora inconsapevole di esserne l’anima gemella, le chiede se spera davvero di trovare un giorno la sua perfetta controparte maschile, e se non ha paura che invece non esista o che risieda nella parte opposta della terra col rischio di non incontrarla mai, ella risponde semplicemente che se non dovesse mai incontrarla la sua vita perderebbe senso: «se fosse separato da me nello spazio e nel tempo […] o dall’abisso del non riconoscersi a vicenda, e dunque non lo trovassi: ebbene, la mia vita non avrebbe avuto scopo alcuno, sarebbe stata il gioco senza senso di un demone imbecille».

Evola e Jung
Evola cita Meyrink nelle proprie opere in più riprese; in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932 presenta il pensiero del narratore austriaco nella sezione dedicata alla magia, intesa come “attitudine metafisica”, nel mondo moderno, a fianco di Giuliano Kremmerz ed Eliphas Levi per i quali il mago è «lo svegliato per eccellenza- colui che è e che può, in virtù non di mezzi indiretti o esterni, ma appunto per via della stessa superiorità che il suo “risveglio” gli ha conferita nell’ordine di quelle forze più profonde». Secondo Evola, per Meyrink il «problema “dell’aldilà” esiste già nell’al di qua. “Coloro che non imparano a vedere qui, di certo non impareranno là”». Per Meyrink l’immortalità è risveglio, e il risveglio è «“crescenza interiore oltre la soglia della morte”, cioè in uno stato indipendente dalle impressioni esteriori e dalle eredità interiori. Gli “svegliati” sono i “viventi”, gli unici, sia in questo che negli altri “mondi”, che non siano dei fantasmi. Meyrink: “Nell’aldilà non vi è alcuno di coloro che sono partiti ciechi dalla terra” […] Meyrink: “Veramente immortale è l’uomo compiutamente sveglio. Gli astri e gli dei se ne vanno; solo lui rimane e può tutto ciò che vuole. Sopra di lui non vi è alcun dio. Quello che l’uomo religioso chiama dio, non è che uno stato. Questa stessa esistenza non è che uno stato. La sua inguaribile cecità gli para davanti una barriera che egli non osa scavalcare. Egli si crea una immagine per adorarla, anziché trasformarsi in essa”». L’ascesi magica consisterebbe dunque in un “denudarsi” dagli elementi e aggregati dell’“io storico”, affinché «ogni distacco valga come una interiore formazione, una crescenza oltre il suolo di quell’Io». Se Evola parla quindi di Meyrink in vari contesti dai Saggi sull’Idealismo Magico agli articoli della maturità, Gustav Jung si riferisce all’intreccio narrativo del Golem in Psicologia e Alchimia, esaltando il valore visionario dei suoi romanzi. Lo psichiatra svizzero cita due volte Il Golem nella seconda parte di Psicologia e Alchimia, sezione dedicata allo studio e all’interpretazione dei sogni; Jung si sofferma, una prima volta, su un modello di sogno ricorrente, lo scambio di cappello tra due persone in società. Questo tema è all’origine del Golem, in cui il protagonista, nel Duomo di Praga, scambia inavvertitamente il proprio cappello con quello di un altro uomo, un certo Athanasius Pernath, intagliatore di pietre, e ne rivive la vita. Jung cita una seconda volta il romanzo dello scrittore austriaco riguardo un altro sogno che si ritrova come episodio onirico nell’intreccio narrativo del Golem: l’offerta di monete d’oro da parte di una persona e il rifiuto del sognatore a prenderle. Nel romanzo il protagonista rifiuta l’offerta di “grani” da parte di un “orribile” essere incappucciato, colpendogli la mano e facendo cadere in terra i grani; verso la fine del racconto Athanasius scoprirà il senso dell’incontro con quella creatura. I grani rappresentano le forze magiche; rifiutandoli e facendoli rotolare sul pavimento il protagonista arresta il tempo della “germinazione” delle forze magiche che “sonnecchiano” in lui e che verranno “custodite” dai suoi progenitori: «l’anima non è nulla di ‘singolo’– ha da diventarlo, e ciò si chiama “immortalità”» L’anima di ogni uomo si compone di molti “io” ereditati dai propri avi, così che un adepto, ricevendo le forze magiche dai propri antenati, porta a compimento il processo di iniziazione cominciato dai progenitori; questo tema è ripreso e completato nel Domenicano Bianco.
Il simbolismo del Golem, come di tutte le altre opere di Meyrink, è straordinariamente complesso e intreccia a motivi onirici e fantastici, insegnamenti esoterici che non possono assolutamente essere ridotti soltanto all’analisi junghiana dell’inconscio.

lunedì 13 ottobre 2003

L'AFFAIRE FULCANELLI

di Enrica Perucchietti


Fulcanelli è senz’altro il più famoso alchimista del XX secolo; la sua fama leggendaria lo ritrae come il più grande Iniziato del ‘900, autore di due opere tanto misteriose quanto controverse che, secondo gli Adepti, i cultori e gli specialisti dell’Ars racchiuderebbero il segreto della Grande Opera. Le opere firmate col nome di “Fulcanelli” sono Le Mystere des Cathédrales del 1926 e Les Demeures Philosophales del 1930, entrambe curate e introdotte dalle prefazioni del più famoso discepolo di Fulcanelli, Eugène Canseliet che non rivelò mai la vera identità del maestro; al momento della loro prima pubblicazione e per un trentennio circa, furono testi praticamente introvabili, in quanto stampati in numero di 250-300 copie, fino alla ristampa effettuata ad opera dell’Omnium Littéraire nel 1957-8.


Il nome di “Fulcanelli” uscì dai circoli esoterici specialistici parigini per acquisire notorietà internazionale grazie a Louis Pauwels e Jacques Bergier che nel 1960, nel loro Le Matin des Magiciens, contribuirono ad accrescere il mito dell’alchimista rendendone immortale la fama. Nel Mattino dei Maghi Pauwels riferisce dell’incontro dell’amico Bergier con un alchimista; Bergier aveva ottime ragioni per credere che fosse proprio Fulcanelli. Quest’uomo misterioso lo avvertì dei pericoli della ricerca sull’energia nucleare a cui stava lavorando e gli spiegò che il segreto dell’alchimia consiste nell’esistenza di un mezzo per manipolare la materia e l’energia in modo da produrre ciò che gli scienziati contemporanei chiamerebbero “campo di forza” e che agisce sull’osservatore mettendolo in una situazione privilegiata di fronte all’universo, punto dal quale egli ha adito a realtà che lo spazio, il tempo e la materia abitualmente nascondono. Al contempo la pietra filosofale e la trasmutazione dei metalli non sarebbero altro che applicazioni, casi particolari della Grande opera: l’essenziale, infatti non sarebbe la fabbricazione dell’oro, ma la trasmutazione dello sperimentatore stesso.
Pauwels raccontò inoltre di aver incontrato anch’egli un alchimista al caffè Procope nel 1953 e, dopo una conversazione a proposito di Gurdjiev, di averlo interrogato riguardo a Fulcanelli; l’alchimista gli avrebbe rivelato che Fulcanelli non era morto, sostenendo che l’alchimia permetterebbe di vivere infinitamente, più a lungo di quanto si possa immaginare. E di cambiare aspetto. Egli sostenne di saperlo con certezza per averlo sperimentato con i propri occhi; allo stesso modo confermò la realtà della pietra filosofale.
Ma non possiamo dimenticare che la data di nascita di Fulcanelli era stata collocata da Canseliet nel 1839! Se l’alchimista incontrato da Pauwels avesse avuto ragione, Fulcanelli nel 1953 avrebbe dovuto avere all’incirca 113 anni…

Svelato l’enigma?
Recentemente un’autrice francese studiosa di alchimia avrebbe risolto l’enigma della vera identità di Fulcanelli, dedicandosi a una minuziosa ricerca nel mondo segreto e misterioso dell’esoterismo otto-novecentesco e all’analisi di documenti inediti. L’anonimato dell’autore delle Dimore Filosofali e del Mistero delle cattedrali sembrava opporre una resistenza a tutte le indagini degli studiosi, finché Geneviève Dubois, sulla base di lettere, testimonianze e di una dettagliata e paziente ricerca all’interno dell’ambiente esoterico al quale appartiene, ne ha svelato l’identità: Fulcanelli sarebbe stato in realtà Jean-Julien Champagne, alchimista, artista e pittore parigino, maestro di Canseliet, nato nel 1877 e morto nel 1932 all’età di cinquantacinque anni. Champagne avrebbe però goduto di una ventennale e feconda collaborazione con René Schwaller de Lubicz, esoterista ed egittologo a cui avrebbe “rubato” l’idea e i manoscritti originali dei Misteri delle cattedrali e delle Dimore Filosofali per dettarli all’ignaro Canseliet, che, in buona fede, li avrebbe fatti pubblicare nel 1926 e nel 1930.
René Schwaller giunse a Parigi nel 1910, divenendo un allievo di Matisse; a questo periodo risale il primo contatto con l’ambiente occultista parigino e l’incontro con Champagne. Quest’ultimo, appartenente a un circolo ermetico, aveva ritrovato, nel 1913, all’interno di un raro esemplare degli scritti di Newton, un manoscritto di sei pagine, che stimò essere del 1830. Esso conteneva il segreto delle manipolazioni alchemiche che avevano permesso la realizzazione dei famosi colori blu e rossi utilizzati nelle vetrate della cattedrale di Chartres. Invano tentò di decifrarlo passando molte ore in laboratorio. Proprio in quel periodo decise di avvicinare Schwaller, conoscendo il suo interesse per l’alchimia e le sue conoscenze chimiche. Gli propose, dunque, la lettura del manoscritto e un’eventuale collaborazione. Schwaller ne rimase colpito e, nonostante non stimasse Champagne, decise di stipulare un accordo con lui: Schwaller avrebbe versato una somma mensile al pittore per la sua sussistenza, in cambio della quale Champagne avrebbe lavorato all’aspetto operativo. Il futuro egittologo avrebbe invece tentato di chiarire la teoria, e Champagne, ottimo manipolatore di laboratorio, avrebbe condotto a termine gli esperimenti. Nel contratto era stata però stipulata una clausola: qualsiasi cosa fosse successa, nessuno avrebbe dovuto sapere dell’esistenza di questo patto, alla cui conclusione si sarebbero separati senza rivelarne a nessuno l’esistenza e senza affrontarne più l’argomento.
Champagne proseguì nei suoi esperimenti anche dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale che vide la mobilitazione di Schwaller in un laboratorio dell’esercito. Fu proprio nel 1916 che l’allora sedicenne Eugène Canseliet, venne presentato a Champagne, divenendone presto l’allievo.

Secondo la Dubois Champagne avrebbe ordito, per tutta la vita, la tela destinata a consacrare il mito di Fulcanelli, tenendo vive per anni le voci sul suo adeptato; se in molti hanno dubitato anche della sincerità del fedele discepolo, la Dubois scagiona invece Canseliet, sostenendo che egli non sarebbe stato che l’oggetto di una manipolazione della quale era troppo giovane e fiducioso per aver coscienza. Egli credeva realmente che Champagne fosse un Maestro, il “Fulcanelli” autore delle opere date alla stampa, mentre il vero autore e iniziato non era altri che René Schwaller. Bergier, infatti, dopo aver scoperto di essere affetto da un male incurabile, rivelò che la vera identità di Fulcanelli era proprio Schwaller de Lubicz. Canseliet si rese conto dell’inganno solo dopo la morte di Champagne e, deluso dall’accaduto, scrisse, il 4 dicembre 1933, una lettera a Schwaller de Lubicz biasimando il comportamento del defunto “maestro”.
Canseliet sarebbe stato dunque una pedina inconsapevole di uno “scherzo” destinato a prendere una piega che, forse, non era stata prevista nemmeno dai suoi artefici. Egli ha rivestito sicuramente un ruolo di prim’ordine nella trasmissione del mito e delle opere di Fulcanelli. Grazie al maestro egli era stato introdotto nell’ambiente occultista parigino godendo dell’opportunità di conoscere i grandi rappresentanti dell’esoterismo francese. Nel settembre del 1922 assistette alla prima trasmutazione operata da Fulcanelli nella centrale del gas di Sarcelles; eseguì lui stesso la proiezione sotto le direttive del maestro. Sebbene questa trasmutazione non segnasse il compimento dell’Opera, essa ne costituiva una fase importante. Sempre nel 1922 Schwaller lasciò Parigi, interrompendo ogni rapporto con l’ambiente esoterico, continuando però a versare la mensilità convenuta a Champagne.
Una delle prove a sostegno dell’identificazione di Fulcanelli con Schwaller è la testimonianza di Canseliet della partenza del leggendario alchimista nel 1922 e del suo ritorno nel 1952: Schwaller partì da Parigi proprio nel 1922 e tornò definitivamente in Europa, dopo il suo soggiorno in Egitto, durato quindici anni, nel 1952. Le date coincidono. Canseliet attestò inoltre di una seconda trasmutazione, avvenuta nel 1927 nel castello di Léré, esperimento che vide la scomparsa definitiva di Fulcanelli.

Il Mistero delle Cattedrali
Durante gli anni della guerra passati a Parigi, Schwaller aveva redatto un manoscritto su un soggetto che gli stava molto a cuore: le cattedrali gotiche e il simbolismo alchemico. Ingenuamente egli lo mostrò a Champagne che, dimostrandosi interessato all’argomento gli propose di sottoporre il lavoro a un editore. Schwaller, fiducioso, gli prestò il documento che Champagne gli promise di restituire rapidamente. Invece egli lo tenne per diversi giorni, dopodiché lo restituì a Schwaller, informandolo che il suo saggio rivelava troppi segreti e che non poteva essere pubblicato. Nel frattempo Schwaller si accingeva a partire per la Svizzera con la moglie Isha, dove, in compagnia di alcuni amici fidati, avrebbe fondato una stazione scientifica denominata Suhalia, una sorta di monastero iniziatico fornito di un avanzatissimo laboratorio chimico, di un osservatorio astronomico e dell’attrezzatura necessaria per le ricerche fisiche. Gli studi sulle piante condussero il gruppo scientifico di Suhalia a una farmacopea omeopatica che per sette anni, fino al 1927, Schwaller insegnò ai membri della comunità.
Durante il suo soggiorno in Svizzera Schwaller continuò a spedire regolarmente la rendita promessa a Champagne per le sue ricerche; costui nascondeva ai suoi allievi, a Canseliet e all’inseparabile amico e collega Pierre Dujols, i suoi rapporti con Schwaller. Aveva infatti chiesto a quest’ultimo che i loro incontri non si svolgessero mai in presenza di qualcuno del suo gruppo; in questo modo nessuno poteva presentire che dietro gli scritti e le ricerche in possesso di Champagne si nascondesse invece la penna di Schwaller.
Champagne iniziò ad approfondire il lavoro di Schwaller sulle cattedrali gotiche, intraprendendo viaggi per studiare con attenzione e riprodurre le sculture di origine medievale che gli sembravano possedere un significato alchemico. Grazie agli appunti di Schwaller sui rapporti tra Notre-Dame de Paris e il simbolismo ermetico, giovandosi della collaborazione e della straordinaria erudizione dell’amico Dujols, Champagne diede inizio alla stesura dell’opera. Fu così che il 15 giugno 1916, Le Mystère des Chatédrales venne pubblicato a Parigi, sotto lo pseudonimo di Fulcanelli, da Jean Schémit; l’episodio destò lo stupore di Schwaller, allora in Svizzera, che, riconosciuto il suo lavoro, avrebbe riferito in seguito in una lettera inidirizzata ad André Vandenbroeck: ”Fulcanelli ha preso le mie idee, me l’ha fatta”. Schwaller, secondo Vandenbroeck, chiamava sempre Champagne col nome di Fulcanelli. Secondo la Dubois Dujols, essendo un uomo di saldi principi, leale e sincero, era probabilmente all’oscuro della provenienza delle annotazioni presentategli da Champagne.
Nonostante avesse scoperto l’inganno, Schwaller non serbò rancore a Champagne, continuandogli a versare la somma pattuita per le ricerche sulle vetrate di Chartres.
Nel 1926 morì Pierre Dujols; la moglie aveva dato a Champagne l’intero schedario alchemico redatto dal marito riguardo i monumenti a carattere alchemico. Dujols malato e costretto a letto aveva affidato a Canseliet il compito di ordinare gli appunti e di redigere l’opera che, una volta sottoposta alla revisione di Champagne, venne presentata all’editore Schémit che la pubblicò il 15 settembre del 1930 con il titolo di Les Demeures Philosophales. Secondo la Dubois il libro sarebbe opera di Champagne e Dujols; soltanto dopo la morte del maestro Canseliet si sarebbe permesso di introdurre delle modifiche alle seguenti riedizioni. Con l’espressione “Dimora Filosofale” Fulcanelli intendeva qualsiasi supporto della verità ermetica, qualunque fosse la sua natura e la sua importanza.

L’alchimia e l’arte gotica
Le opere pubblicate sotto lo pseudonimo di Fulcanelli possono essere intese come un eccellente compendio di scienza ermetica attraverso lo studio dell’arte gotica. L’alchimia viene definita dall’autore come la ricerca della perfezione e il risveglio della vita assopite sotto il peso della materia. Lo scopo alla base delle operazioni ermetiche è la permanente purificazione che conduce alla trasmutazione dell’Adepto. Come spiegato da Canseliet e attestato dalla mitologia concernente i maghi-alchimisti di tutte le epoche e tradizioni, l’Iniziato che abbia conseguito la pietra filosofale è in grado di compiere “miracoli”, di prolungare indefinitamente la propria vita, di prevedere sciagure, malattie, perfino la violenza criminale.
A partire dal Mistero delle Cattedrali, Fulcanelli intreccia l’esame delle chiese gotiche francesi, Notre-Dame de Paris, la cattedrale di Amiens e quella di Bourges, all’esposizione dei significati occulti dei simboli e dei miti esoterici e delle pratiche alchemiche. Scopo dichiarato dell’autore è illustrare il significato originario e reale della scienza alchemica e, al contempo, ristabilire il valore straordinario dell’arte gotica e della cultura medievale, dimostrando il carattere falso e artificioso delle critiche mosse al medioevo dagli storici e scrittori, a partire dal Rinascimento.
L’arte gotica parla una lingua di pietra chiara e sublime, che attesta la falsità delle accuse che dipingono il medioevo come un’epoca buia, ricca di sciagure e barbarie; la cattedrale si presenta come un’enciclopedia di tutto il sapere medievale, perfettamente completa, talvolta ingenua, ma sempre nobile, vivente. Queste “sfingi” di pietra sono da considerarsi dei veri e propri educatori, degli iniziatori di prim’ordine alla scienza tradizionale, al patrimonio ancestrale. Così Notre Dame de Paris, chiesa filosofale, è senza possibilità di smentita, uno dei più perfetti prototipi del genere, testimone incontrastato del sapere ermetico. Gli alchimisti del XIV secolo s’incontravano una volta alla settimana nel giorno di Saturno, nei pressi della cattedrale e ognuno di essi illustrava a turno il risultato dei suoi lavori, spiegando l’indirizzo delle sue ricerche, facendo attenzione a non far trapelare il segreto dell’Opera ai profani che ne avrebbe potuto fare cattivo uso.
La chiesa gotica è così il tempio alchemico per eccellenza; essa costituisce la glorificazione muta, ma espressa con immagini dell’antica scienza ermetica. Le cattedrali gotiche furono costruite dai framassoni per assicurare proprio la trasmissione dei simboli della dottrina ermetica; gli artisti del medioevo testimoniano come questo periodo non conobbe per niente le tenebre dell’oblio della conoscenza e delle miserie umane, ma vide, al contrario, il fiorire di eccezionali opere filosofiche e di trattati ermetici.

Riuscita dell’esperimento
Nel 1930, dopo diciannove anni di ricerche Champagne e Schwaller de Lubicz riuscirono finalmente a ottenere in laboratorio la fabbricazione dei blu e dei rossi delle vetrate, come quelli che si possono osservare nella Cattedrale di Chartres. Il successo dell’opera avrebbe dovuto condurre all’ottemperamento del patto stipulato vent’anni prima, secondo il quale le strade dei due collaboratori si sarebbero definitivamente separate e Schwaller avrebbe smesso di inviare al collaboratore il versamento della mensilità. Ma in seguito alla riuscita dell’esperimento Champagne cambiò completamente; raggiunto uno stato di costante eccitazione, decise di continuare su questa strada e di ripetere l’operazione. Per un anno Champagne, che si scoprì malato, mantenne la parola data e non fece allusioni alle loro ricerche di laboratorio. Egli desiderava però svelare tutto ai suoi discepoli e avvertì Schwaller dell’intenzione; quest’ultimo tornò a Parigi nel 1931. Quando si incontrarono Schwaller ricordò a Champagne il patto e gli propose, in cambio del suo silenzio, di continuare ad aiutarlo finanziariamente.
Nell’agosto del 1932 Champagne inviò una lettera a Schwaller in cui precisava la data della riunione con i discepoli; pochi giorni prima di questa data Schwaller tornò a Parigi, si diresse da Champagne e lo trovò a letto con la pelle nera: aveva una gamba in cancrena. Dopo aver riflettuto Champagne si mostrò pentito e chiese all’amico di portar via tutte le carte dei suoi lavori e il manoscritto che aveva dato origine alla loro collaborazione. Fu il loro ultimo incontro, perché Champagne morì l’indomani, il 26 agosto 1932. Tre giorni dopo la dichiarazione della sua morte, Champagne venne seppellito nel cimitero di Arnoiulle-les-Gonesse. La sua lapide che è stata successivamente tolta o rubata recava questo epitaffio: APOSTOLUS HERMETICAE SCIENTIAE, le cui iniziali AHS sono le stesse che compaiono nelle firma di Fulcanelli. Nel 1938 Schwaller de Lubicz si trasferì a Luxor con la sua famiglia, dove consacrò quindici anni allo studio dell’egittologia, delle tombe faraoniche e dell’esoterismo egiziano. Ritornò nel 1952 a Plan-de-Grasse dove morì il 7 dicembre 1961.

Il dubbio rimane
Se dietro agli scritti firmati col lo pseudonimo di Fulcanelli si nascondeva in realtà il sodalizio tra Champagne, Dujols e Canseliet, risulta però difficile comprendere alcune successive testimonianze di Canseliet. Costui, in seguito alla morte di Champagne, venne a conoscenza dell’inganno ordito nei confronti di Schwaller e scrisse una lettera a quest’ultimo dove gli confessava tutto il rammarico per la condotta del maestro. Se Fulcanelli non era altri che Champagne, non si spiega innanzitutto il motivo per cui, saputa la verità sull’origine delle opere edite con il nome di Fulcanelli, Canseliet sia rimasto fedele alla memoria del maestro. Scoperto il furto degli appunti di Schwaller avrebbe dovuto, plausibilmente, interrompere l’opera di promozione della fama dell’alchimista. Egli si dimostrò invece sempre fedele alla memoria di Fulcanelli e sostenne inoltre che egli non era morto.
Nel 1953, Pierre Geyraud, nel suo L’Occultisme à Paris, racconta che nel 1936 (quattro anni dopo la presunta morte di Champagne), durante un banchetto in occasione della Festa del Sole e dei Fuochi di San Giovanni, Canseliet rispose alla domanda dello scrittore Rosny circa la vera identità di Fulcanelli: “Io non sono altro che il prefatore; Champagne è solo il disegnatore; e Fulcanelli è lo pseudonimo di un terzo personaggio che, per rispettare la regola del silenzio, non posso definire altrimenti. Fulcanelli vive ancora. E’ stato inviato dalla Fratellanza Bianca per agevolare l’evoluzione dell’umanità. E’ un vero Rosa-Croce. Si trova ora in Brasile, ora in Argentina, errando per il mondo alla maniera dei Rosa-Croce di un tempo: adesso è nel sud della Francia. E’ un vero maestro dai poteri straordinari”. A questa dichiarazione si aggiunge la successiva testimonianza di Canseliet dell’incontro con Fulcanelli, avvenuto, all’incirca, nel 1953. Canseliet sarebbe stato avvicinato da una conoscente che lo avrebbe condotto non lontano da Siviglia in una immensa proprietà che circondava una villa a cui si accedeva tramite una doppia scalinata e una terrazza. Fulcanelli era là ad aspettarlo e gli domandò se lo riconosceva. Canseliet assentì e i due scambiarono una breve conversazione. Tutti i residenti della casa sembravano, per i loro discorsi, le loro vesti, le loro sembianze, appartenere a una umanità che non viveva sul nostro stesso piano temporale, una società fuori del tempo, che si era fermata sulle soglie del XVII secolo! Lo stesso Fulcanelli avrebbe dovuto avere 113 anni.
Le leggende sulla sparizione, sui poteri e sulla longevità conseguita da Fulcanelli appartengono alla mitologia alchemica che ritroviamo con caratteristiche simili in diverse epoche e contesti geografici, dall’estremo Oriente all’Italia e alla Francia. Il mistero sulla vera identità di Fulcanelli rimane. Fulcanelli era davvero Champagne? Oppure dobbiamo credere a Canseliet, suo fedele seguace, per il quale un vero Iniziato si sarebbe nascosto dietro Champagne? Chi era questo Maestro? Canseliet intendeva forse Schwaller, che, all’epoca era ancora vivo? Ma se non era l’egittologo francese, chi era, e che fine avrebbe fatto? Fulcanelli vive ancora?