sabato 22 maggio 2004

ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE. UN'INTERPRETAZIONE ESOTERICA

di Enrica Perucchietti


Pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson, Lewis Carroll scrisse e diede alle stampe Alice’s adventures in Wonderland nel 1865. Quest’opera, la più famosa e amata della letteratura infantile inglese, nacque dalla vena fantastica carrolliana come omaggio a una bambina amica dello scrittore, Alice Liddell.
Scritta su un quaderno come Alice’s Adventures Underground, poi rivista e pubblicata nel 1865, questa storia è l'elaborazione di un racconto estemporaneo che Dodgson, scrittore e matematico dal carattere timidissimo, inventò durante un pomeriggio in barca per intrattenere le tre figlie del decano Henry G. Liddell - coautore del dizionario Liddell-Scott di greco antico - Lorina Charlotte, Edith e la piccola Alice. Affascinato soprattutto dalla smaliziata vivacità di quest'ultima, Charles ottenne il permesso di sperimentare con lei la sua passione fotografica.
l rapporto con la giovane che, entusiasta del racconto spinse Carroll a pubblicarlo, fu al centro di gravi pettegolezzi a causa della sospetta passione del reverendo per le bambine che amava ritrarre e fotografare in pose maliziose ed eteree.
Carroll divenne ben presto amico inseparabile di Alice: con la scusa della fotografia aveva infatti cominciato a farle visita assiduamente, al punto che la madre gli impose di allontanarsi da quella casa. È facile immaginare la frustrazione e l’imbarazzo di Carroll che si era legato morbosamente alla piccola. Forse la decisione della signora Liddell era dovuta soprattutto alla sua predilezione per le giovani pre-adolescenti che Dodgson amava immortalare immerse in atmosfere fiabesche, per le quali aveva addirittura allestito una sorta di parco giochi nel giardino della propria abitazione.
Fu nel 1858 che, inaspettatamente, Charles prese i voti, e due anni dopo divenne sacerdote. In questo periodo scrisse inoltre varie opere: alcuni libri di testo di matematica, e degli articoli con i quali collaborò con la rivista "The Train". Quando il direttore della testata gli chiese di trovare un nome d'arte, Charles usò per la prima volta lo pseudonimo con cui è divenuto famoso. Scelse questo nome latinizzando il proprio: da Charles ricavò Carroll, e da Lutwidge, Lewis.
Ma Alice era sempre nei suoi pensieri, e fu lei che gli ispirò l'opera che lo ha reso celebre. Come abbiamo visto, fu durante una gita in barca con le tre sorelle Liddell e un amico, Lord Tenniel, che Charles ebbe l'ispirazione per Alice, e tre anni dopo, il romanzo fu pubblicato: Tenniel si occupò delle illustrazioni.
Charles, nonostante l'esperienza religiosa, non riuscì più a reprimere i propri sentimenti e cominciò a palesare l’amore che lo legava alla ragazzina, esprimendo addirittura il desiderio di sposarla. La reazione della madre fu naturalmente inappellabile: Carroll venne allontanato in modo definitivo e non poté più avvicinarsi ad Alice.
Nei suoi diari l'uomo descrisse questo periodo come un momento doloroso, tanto che alcuni critici hanno ipotizzato che sia stata proprio la madre di Alice a ispirargli il personaggio della Regina di Cuori nella favola.
Alice ha esercitato e tuttora esercita una forte attrazione anche sui lettori adulti a causa del peculiare gusto del gioco logico e verbale. Alle avventure di Alice, Carroll diede un seguito con l’altrettanto geniale e divertente Through the looking glass and what Alice found there (Attraverso lo specchio, 1871) in cui i personaggi che nell’opera precedente erano carte da gioco, nel secondo romanzo sono pezzi degli scacchi.
Proprio la facoltà spiccatamente infantile di osservare le cose e la realtà con perfetto irreale candore servì a Carroll per svelare le assurdità e le incoerenze della vita adulta e per dar vita non solo a coloratissimi momenti comici, ma anche a incantevoli poesie sperimentali e a giochi basati sulle regole logico-matematiche.

I film di Walt Disney
Il film di animazione di Walt Disney del 1951, tratto dal romanzo di Carroll, è una fiaba sempre attuale e dai risvolti psicanalitici. Ma non solo: esso conduce a un’inaspettata interpretazione alchemica e cabalistica.
Costato cinque anni di lavorazione e tre milioni di dollari, Alice è un progetto che il regista rincorreva già dal 1933, e che, in una fase iniziale, avrebbe dovuto combinare la parte animata con una parte affidata alla recitazione di veri attori. Ma la formula disneyana, pensando in termini di attori disegnati, non abbisognava più di figure in movimento accompagnate da attori in carne ed ossa. Il disegno animato in Alice non è più soltanto il luogo della grafica, è un mondo reale che obbedisce a leggi coerenti e autonome. I lungometraggi disneyani, rappresentando un corpus uniforme sia a livello visivo che di contenuto, sono contraddistinti da un carattere atemporale, da un’universalità fiabesca che ritroviamo soprattutto in Alice.
Riscoperto dal movimento psichedelico degli anni Sessanta per le sue sequenze visionarie, Alice nel Paese delle Meraviglie è un piccolo capolavoro che unisce in sé fantasia, magia, nonsense, umorismo ed ermetismo, ma che tradisce la passione carrolliana per la logica e i giochi matematici, presente nel romanzo. Non si può però dimenticare che Disney era affiliato alla massoneria e cultore di scienze occulte. La sua passione per l’esoterismo traspare nell’analisi del film. Il legame di Disney con l’esoterismo e in particolare con l’immaginario femmineo è stato recentemente “riscoperto” dal romanziere e storico dell’arte Dan Brown che nel suo best seller Il codice Da Vinci ha inserito, per bocca del suo protagonista, il professore e studioso di simbologia Robert Langdon, una sintetica ma affascinante digressione su Disney che, inserendosi sulla scia di artisti, scrittori e compositori quali Leonardo, Botticelli, Poussin, Bernini, Mozart e Victor Hugo ha cercato di ripristinare il femminino sacro, inserendo nelle proprie opere citazioni e rimandi non solo al Santo Graal, alla religione, ai miti pagani e alla Massoneria, ma anche alla Dea Madre, alla Maddalena o a personaggi mitici che le incarnassero. Secondo Langdon «Disney si era dedicato al compito di tramandare la storia del Graal alle future generazioni. Disney era stato salutato come “moderno Leonardo da Vinci”». Entrambi avevano precorso i tempi, anticipando i rispettivi contemporanei in quanto estro creativo e genialità, presentandosi come «artisti dalle doti uniche, membri di società segrete e, soprattutto, incorreggibili burloni». Come Leonardo amava inserire simboli e allusioni nei propri quadri, anche Disney amava nascondere messaggi e simboli nelle proprie opere. Da questo punto di vista guardare un film di Disney significa essere «assalito da una valanga di allusioni e metafore». E questa occultamento si rivela prepotentemente soprattutto nei suoi capolavori più famosi: Biancaneve, Cenerentola e La bella addormentata nel bosco, fiabe che Disney aveva ripreso in modo da poter trasmettere storie riguardanti “l’imprigionamento del femminino sacro”. Negli altri film i messaggi sono più sottili, complessi, quali sofisticati giochi di simbologia. E l’ermetismo si fonde, o meglio, si confonde con la dimensione onirica e con la l’allegra follia del mondo dell’animazione. Così Biancaneve che cade morta dopo aver addentato la mela avvelenata simboleggia la caduta di Eva nell’Eden, mentre Aurora, la principessa nascosta nel profondo della foresta sotto il falso nome di “Rosa” per sfuggire dalla strega malvagia, alluderebbe alla storia del Graal. Anche dopo la morte di Disney i suoi collaboratori e dipendenti avrebbero continuato l’opera del maestro divertendosi a trasmettere una simbologia segreta. Un chiaro esempio è La sirenetta che il protagonista del Codice presenta come «un affascinante tessuto di simboli spirituali così legati specificatamente alla dea da non poter essere una coincidenza». Se si osserva attentamente una veloce sequenza del cartone si può distinguere un particolare sconvolgente per l’ambito in cui è inserito, un omaggio alla Maddalena, la sposa occulta di Cristo: nella dimora subacquea di Ariel, la principessa sirena, si nota un quadro dell’artista del XVII secolo Georges de la Tour: Maddalena penitente! Così l’origine principessa della sirenetta, i capelli lunghi e rossi, la natura metà pesce alludono alla Maddalena e al cristianesimo. In tutto l’arco del film si riscontrano numerosi riferimenti simbolici non soltanto alla Maddalena ma anche alla “perduta santità” di Iside, nuovamente Eva, e Piscis, la dea pesce.


Alice: il film
Apparentemente narra la storia di una bambina che, annoiata ad ascoltare un libro senza figure né dialoghi letto ad alta voce dalla sorella, preferisce sognare ad occhi aperti, rifugiandosi in un immaginario irrazionale di fantasia e nonsense.
Pensando che non serve a nulla un libro senza illustrazioni né dialoghi, si lascia trascinare in un’avventura “onirica” in un sogno cosciente. Tutto comincia con l’esaudirsi di un suo desiderio espresso al Gatto Oreste: “Se io avessi un mondo come piace a me, là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe come è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa; ciò che è non sarebbe e ciò che non è sarebbe: chiaro?”. Ossia la richiesta di un mondo “negativo” in senso fotografico, in cui quello che è bianco, sarebbe nero e quello che è nero, sarebbe bianco, in cui i vari colori sarebbero i “complementari” di se stessi, in modo poter sperimentare “l’altro aspetto” della realtà, vale a dire l’Ombra (v. Jung).
Inizia così l’avventura della giovane protagonista che, inseguendo nel bosco un coniglio bianco elegantemente vestito che si affretta brontolando come se avesse un appuntamento importantissimo e fosse in ritardo, lo segue fin nella sua tana e cade in un pozzo profondissimo; da lì entra in un paese sconosciuto, surreale, abitato da strane creature, ovvero il paese delle meraviglie, del fantastico, dove l’immaginario e l’incredibile si fondono e si confondono diventando realtà.
Alice sprofonda letteralmente in un altro mondo, dove il nonsense acquista la dimensione della favola e la follia regna sovrana. Il film, come il libro, si popola di creature straordinarie, di animali parlanti, ciascuno con caratteristiche peculiari. Il gioco carrolliano del metalinguaggio, la perenne messa in discussione del linguaggio attraverso giochi logici, versi e paradossi filosofici rielaborati in chiave fiabesca cedono il passo a immagini mirabolanti, al ritmo frenetico, all’umorismo dei personaggi.
Se nel romanzo l’autore introduce la categoria della follia per spezzare la concezione ordinaria e hegeliana del mondo come razionalità, scompaginando il linguaggio e smontandone i meccanismi verbali, il film è costretto a ricorrere alla forza delle immagini, all’universalità storica, ai motivi canori, alle danze, ai colori per ritrarre al meglio quella follia, quell’irrazionalità che Carroll esprimeva attraverso la prosa, gli indovinelli, il ricorso ai giochi logico-matematici, lo stravolgimento del “banale” significato.
Una buona parte dei nonsense logici consiste nel prendere troppo alla lettera le proposizioni, oppure troppo poco: nell’imitare, cioè, i sintomi dell’ebefrenia e della paranoia. Per Carroll esisteva dunque un implicito legame tra sanità mentale e capacità linguistica, che il Gatto del Cheshire rende esplicito quando, ad Alice che gli dice: “Non voglio andare fra i matti”, risponde: “Non puoi evitarlo, perché qui lo siamo tutti. Anche tu, altrimenti non ci saresti venuta”.
La pazzia è una costante che si ritrova in molti dei personaggi in cui Alice si imbatte; Carroll riteneva infatti che una delle sue manifestazioni fosse il non saper distinguere fra sogno e realtà. Non stupisce dunque scoprire in questa mancata distinzione uno dei fili conduttori delle avventure di Alice.

In Alice i due aspetti sono ancora mantenuti nettamente separati: alla fine Alice si risveglia, scopre di aver sognato, e racconta il sogno alla sorella, anche se immediatamente questa si addormenta a sua volta, e sogna Alice che sogna il suo sogno.
In Attraverso lo specchio, invece, la distinzione dei due livelli è più sfumata. Il Re Rosso rimane addormentato per tutta la partita, senza accorgersi di niente, e Tweedledum e Tweedledee sostengono che l’intera storia è solo un suo sogno. Quando Alice si risveglia, si ritrova nella condizione della farfalla di Chuang-Tzu: chi dei due ha sognato l’altro? Carroll demanda al lettore la risposta, ma nell’ultimo verso della poesia finale sembra sciogliere i dubbi, dichiarando con toni che riecheggiano la celebre opera di Calderon de la Barca: life, what is it but a dream?, “la vita che cos’è, se non un sogno?”.
Se questa è la conclusione, allora il nonsense che pervade le avventure di Alice è la vera condizione umana, e la ricerca del senso della vita è un’impresa impossibile. Il che non rende, però, necessariamente disperata l’esistenza. Insegna infatti il Re di Cuori: “se un senso non c’è, questo ci evita un sacco di guai, perché non dobbiamo cercare di trovarlo”. Il che conferma che, come dice la Duchessa: “tutto ha una morale, bisogna solo trovarla”.
Ma, come abbiamo anticipato, sia il film che il romanzo, sono interpretabili anche in chiave esoterico-psicanalitica. L’interpretazione che ha preso piede nel Novecento è stata chiaramente quella freudiana. Ma in molti ritengono che si tratti di una semplificazione. A maggior ragione si può evitare il rischio del riduzionismo freudiano se si pensa alla passione per le scienze occulte, comune sia a Carroll che a Disney. Sarebbe una leggerezza pensare che si tratti soltanto di una coincidenza. Disney ha portato sullo schermo una favola ricca non solo di suggestioni visive, plastiche, ma anche colma di significati simbolici ed ermetici.
A un primo livello Alice si presenta come una fiaba per l’infanzia, ma, addentrandosi nella materia del film sono riconoscibili chiari riferimenti (od omaggi) all’alchimia e alla psicologia, così come nel romanzo sono evidenti i richiami alla logica e alla filosofia del linguaggio. Che Alice alla fine del racconto abbia viaggiato nel subconscio è facilmente accettabile, ma pecca di riduzionismo di fronte alla complessità logico-matematica del libro e a quella visionario-esoterica del film.
Il nome dell’eroina, nonostante il riferimento all’Alice Liddell, giovane amica di Carroll, ha un ambivalente significato etimologico (se si esclude la fonte incerta secondo la quale significherebbe “creatura del mare”): dall’antico celtico significherebbe “bella, di bell’aspetto”, ma dal greco “aléxo” sarebbe una derivazione del nome “Alessandro” (aléxo “proteggere” e dalla radice andr- “uomo”), e acquisterebbe una valenza “salvifica”, significando “colei che protegge, che salva”. Nel primo caso Alice riveste le funzioni cabalistiche di Tif’ereth (“bellezza, maestà”, la sesta sefirah[1]) e nel secondo di Da‘ath (“conoscenza”, sefirah autonoma), ma è ancora una “bambina”, deve ancora crescere; indubbiamente il percorso del film indica un viaggio interiore, da cui la protagonista, secondo l’interpretazione freudiana, emergerà più matura e consapevole.
Carroll, nonostante sia stato spesso associato a Thomas Carlyle per la propria inquietudine di fronte alla crisi del rapporto tra società e individuo, non era di fatto un “rivoluzionario”, e il romanzo termina con il ritorno della giovane protagonista all’ “opaca realtà di sempre”. Alice, infatti, cerca di superare il divario filosofico tra l’individuo e la società ma è destinata al fallimento, alleviata però dal ritorno nel mondo onirico in Alice dietro lo specchio. L’autore ci lascia almeno la speranza di poter continuare a sognare. O almeno concede la possibilità del viaggio onirico ai bambini.
All’inizio Alice parla con il Gatto. Cominciamo ad esaminare il Gatto Oreste (dal greco òros= abitante del monte); il Gatto gode nel simbolismo di una fama prevalentemente negativa, se si esclude l’ambito greco-egiziano presso cui era venerato come animale sacro, associato in Egitto alla dea Bastet, in Grecia a Diana, con ambivalenza solare-lunare. Presso i Celti, invece, i gatti simboleggiavano le forze malvagie e spesso erano offerti in sacrificio. Sia per i Celti che per i Germani l’occhio del gatto, che muta a seconda dell’incidenza della luce, era ritenuto ingannatore, mentre la capacità del felino di cacciare anche nell’oscurità quasi totale faceva pensare che fosse un alleato delle potenze delle tenebre. Il gatto veniva considerato come uno “spirito ausiliario” delle streghe. Per la psicologia il gatto è invece “l’animale femmina per eccellenza”, un animale della notte, così come la donna si radica più profondamente nel lato oscuro, tellurico e indecifrabile dell’esistenza, rispetto alla relativa e solare semplicità maschile.
Il Gatto Oreste, dunque, viene a rappresentate l’elemento di terra indispensabile per il Vitriol (principio alchemico che richiede la discesa del miste nei meandri della propria natura “terrena”, oscura, primordiale = “Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem”) cioè per la ricerca interiore, ma rappresenta anche il confidente, amico-amante (v. Oreste e Pilade). Esso nel sogno diverrà lo “Stregatto”: consigliere utile, risolutivo in due situazioni drammatiche, e tuttavia rivelatore delle intimità della “Regina” e quindi elemento scatenante della condanna a morte di Alice (ricordiamo che la morte del miste è l’elemento chiave dell’alchimia e dell’iniziazione misterica).
Il “Bianconiglio” che corre sempre, che scambia Alice con “Marianna” e che ha la funzione di “trombettiere” della perfida Regina di cuori riprende invece l’archetipo universale del coniglio. Nella simbologia tradizionale, infatti, esso è legato alla Luna (Yesod, “fondamento”, nona sefirah), ma come messaggero (trombettiere) è relativo a Mercurio-Ermes (Hod, “fasto”, ottava sefirah) - altro riferimento all’alchimia. Ma Mercurio-Ermes non è soltanto il patrono dell’alchimia; come corpo celeste Mercurio è uno dei pianeti più difficilmente osservabili. Nell’Europa centrale esso è visibile a occhio nudo per 12-18 ore all’anno; rimane costantemente nelle vicinanze del Sole, così da essere osservabile solo al crepuscolo o con il cielo leggermente velato, soprattutto in autunno e primavera. La sua “fuggevolezza” rispetto all’osservatore è chiaramente il motivo del suo significato simbolico. Come lo sfuggente Bianconiglio sempre di corsa, esso è di natura ambigua e insicura, per via appunto della sua mobilità.
Il bianco coniglio di Alice fin dalla sua prima apparizione si presenta in ritardo con un orologio da panciotto che sbuca dal taschino. “Ohimè! ohimè! Farò tardi, troppo tardi” si dispera. Su questo episodio si sono sbizzarriti i critici sottoponendo la fretta del Bianconiglio a una valanga di interpretazioni. Il coniglio simboleggerebbe l’urgenza “industriale” dell’età vittoriana, più in generale dell’etica protestante del capitalismo in cui, come Weber ha perfettamente spiegato, non esiste più tempo libero: bisogna investirlo per lavorare, per produrre.
Il coniglio chiama per errore Alice “Marianna” (= afflitta, da Mariana = amara, e infatti Alice “piange” spesso - anche se l’etimologia propria sembra derivi dal greco Maràmne, nome che riprende l’ebraico mrj-imn “amata da Ammone”, cioè da Dio -; ma anche da Maria – Anna, rispettivamente la madre e la nonna di Gesù e corrispondenti nell’albero sefirotico della qabbalah a Gevurah, la “potenza” o quinta sefirah, e Binah, l’“intelligenza”, la terza sefirah); Alice è subito pronta a cercargli i guanti come “Marianna”. Questo fatto è chiaramente simbolo di identificazione della protagonista con la “madre” (Gevurah bianco) del “Bianconiglio” e rivela senso di colpa per non saper trovare i suoi “guanti bianchi”, cioè non sapere gestire con “arte diplomatica”, con i “guanti” appunti, il rapporto con la Regina di cuori (Gevurah nero).
Un’altra problematica che traspare dal sogno è la continua incapacità della bambina di stabilire un equilibrio tra “Grande” e “piccolo” (il dissidio universale dell’uomo microcosmo di stabilire un rapporto con la Natura-macrocosmo). Quello che è importante e quello che non lo è; ritroviamo questa incapacità ben 10 volte (dieci come il numero delle sefirot): la prima quando beve da una bottiglietta su cui è scritto “bevimi” e diventa piccola, poi mangia un biscotto e diventa grande, poi di nuovo beve dalla bottiglietta e diventa talmente piccola da poter passare per il buco della serratura della porta che la introduce nel paese delle Meraviglie; a questo secondo livello di piccolezza avrebbe la possibilità di conoscere una tecnica alchemica per “asciugare il bagnato e bagnare l’asciutto” assai originale, una sorta di mescolanza di secco e umido (base dell’opus rinascimentale) che attua la fusione dei contrari nella danza circolare della “Maratonda”. Ma Alice non è ancora in grado di approfondire questa pratica e perciò, vedendo in lontananza il Bianconiglio, lascia la Maratonda per seguirlo.
Conosce così la triste storia delle ostrichette curiose (la “perla” nella simbologia alchemica cinese è l’emblema dell’elemento yang e quindi apportatrice di longevità) raccontata da Pinco Panco e Panco Pinco, (spettatori e narratori quali Sole e Luna). In questa storia Alice impara qual è la punizione per la curiosità imprudente: divenire cibo per il grasso Tricheco (Yesirah capovolto) e non-cibo per il magro Carpentiere suo compare (Assiah capovolto), in un mondo ingiusto e prevaricatore, quello dell’Albero nero.
Nella casa del Bianconiglio, mentre cerca invano i famosi guanti, Alice trova una scatola di biscotti con su scritto “serviti”, ne mangia e diventa gigantesca, mangia subito una carota e diminuisce fino a divenire piccola come un fiore. A questo terzo livello di piccolezza può ascoltare il “canto” dei fiori e a essi vorrebbe unirsi, ma viene respinta perché “senza radici” e dunque considerata con disprezzo “erba comune”. Non c’è in lei ancora la qualificazione per essere “fiore” (Centro o Sefirah) ricordiamo che con il termine sefirah la letteratura cabalistica denota ciascuno dei dieci fondamentali stadi del manifestarsi di Dio nei suoi vari attributi. L’insieme delle sefirot forma l’“albero sefirotico”, attraverso cui l’energia divina si diffonde nel cosmo). Il fiore, infatti, in quanto simbolo universale della giovane vita in virtù della disposizione dei suoi petali, è divenuto presso molti popoli emblema del Sole, dell’orbita terrestre e, di conseguenza, del centro.
Non risulta positivo neppure l’incontro con il Brucaliffo (connesso al tema sciamanico e alchemico della droga iniziatica) che con la sua domanda “Chi essere tu?” vorrebbe costringere Alice a prendere coscienza di se stessa. Ma Alice è confusa e risponde di non saperlo, sa solo che è stanca di essere piccola otto centimetri, e tutto quello che ottiene dal Brucaliffo è l’informazione che una parte (del fungo su cui è seduta) fa crescere, l’altra fa diminuire. Che cosa rappresenta a questo punto del viaggio il Brucaliffo? Il Brucaliffo che si trasforma in farfalla, “animale spirituale” simbolo per eccellenza di metamorfosi, rinnovamento, rappresenta la possibilità che è concessa a ognuno di noi di una seconda prova per superare un ostacolo, un esame o una prova imposti. Ancora una volta mangiando il fungo Alice prima cresce a dismisura ed è accusata di essere un serpente (nella sua forma circolare il serpente che si mangia la coda è l’uroboros, simbolo alchemico di infinito, immortalità ed eterno ritorno, ma più in generale simbolo connesso al mondo infernale - nella Bibbia è l’incarnazione del nemico, del demonio - e al regno dei morti, a causa della sua abitudine a vivere in luoghi nascosti e in buche sotto terra, ma anche per la sua capacità di ringiovanire grazie alla muta) poi diminuisce troppo, infine trova un apparente equilibrio e conosce o ri-conosce lo Stregatto (Oreste) che con la sua capacità di apparire e sparire e per mezzo delle sue potenzialità magiche la indirizza verso l’esperienza alienante ma istruttiva della conoscenza di due personaggi stranissimi, culmine della follia del film: il Cappellaio Matto e il Leprotto Bisestile (capovolgimenti complementari dello stesso Bianconiglio) che stanno celebrando la festa di uno dei loro 364esimi non-compleanni con tantissime tazze e teiere di non-the. A ben vedere, non era proprio questo il desiderio che Alice aveva manifestato al suo Gatto Oreste, ossia di vivere in un mondo capovolto? Nel momento stesso in cui il desiderio viene esaudito, Alice decide però di uscire da quel mondo: vuole tornare a casa. Ma il ritorno al centro, al punto di partenza non è facile! Avendolo desiderato, ed essendosi incamminata in quest’esperienza onirico-inconscia deve “vedere” ancora cose molto strane: uccelli-ombrello, gufi-fisarmonica, passeri-matita e vedere il “Sentiero” di ritorno diventare non-sentiero: ossia sentiero cancellato.
Ora Alice è disperata, e nella disperazione, ecco ricomparire in suo soccorso lo Stregatto a mostrare il passaggio segreto che le permette di affrontare la Regina di cuori, la proprietaria di tutti i non-sentieri del paese delle Meraviglie. Alice entra così nel mondo delle “carte” da gioco: cuori, quadri, fiori e picche (il mondo dei quattro elementi mentali: fuoco, aria, acqua e terra) dove regna sovrana tiranna, egoista e crudele la Regina di cuori, dove il gioco è sleale e l’ira comanda; dove i sudditi sono avvezzi alla “decapitazione”, ad essere privati della testa (l’elemento razionale in un mondo di pura follia), della mente e della vita.
Conoscere la Regina di cuori (Gevurah nero) significa affrontarla, dover giocare con lei - alle sue condizioni - e dover “perdere”. Lo Stregatto (l’anima junghiana?) interviene ancora una volta: provoca l’incidente che porta alla conclusione dell’esperienza. La Regina dell’albero capovolto viene “capovolta” a sua volta e Alice, essendo condannata a morte, può tornare a vivere. Alice, mangiando ancora il fungo magico (come abbiamo visto elemento alchemico paragonabile al soma vedico e alla droghe sciamaniche), diventa prima assai grande (nono stato di piccolezza) e poi ancora piccola (decimo) e finalmente fugge a gambe levate da quel suo infer(n)o (= interno) personale, volendo, ora con tutta se stessa, essere veramente a casa (l’adepto deve vivere l’inferno del proprio io, soffrire la “passione” per resuscitare a una condizione di coscienza superiore per accettare e conoscere realmente se stesso).
Così si sveglia e ritorna al mondo di sempre dopo aver appreso che in questo mondo, quello che è, è bene che sia e quello che non è, è bene che non sia, secondo Legge parmenidea di Natura.


[1] Ricordiamo che con il termine sefirah la letteratura cabalistica denota ciascuno dei dieci fondamentali stadi del manifestarsi di Dio nei suoi vari attributi. L’insieme delle sefirot (plurale di sefirah) forma l’“albero sefirotico”, attraverso cui l’energia divina si diffonde nel cosmo.

LA DISCENDENZA DEL SANGUE: C. G. JUNG E L'INTERPRETAZIONE PSICANALITICA DELL'ALCHIMIA

Sembra che il destino di Jung come interprete dell’alchimia fossero scritto nelle stelle. Ma non si sarebbe trattato di qualche influsso astrale, bensì di una curiosa coincidenza “karmica”. Jung poteva infatti rivendicare una discendenza diretta da Goethe in quanto suo nonno sarebbe stato un figlio illegittimo del famoso poeta tedesco. Proprio questa leggendaria parentela avrebbe fatalmente indirizzato Jung a proseguire i lavori e le ricerche lasciate incompiute dai suoi predecessori; come un eroe dei romanzi di G. Meyrink, la discendenza unisce con legami fatali lo psichiatra svizzero ai suoi antenati. Jung venne anche a scoprire che un suo avo, il medico e giurista Carl Jung, morto nel 1645, era stato plausibilmente in contatto con gli scritti esoterici di Michael Maier, uno dei padri fondatori dei Rosacroce, e di Gerardus Dorneus, un dichiarato seguace di Paracelso, che si era occupato, molto più di tutti gli altri alchimisti, del processo di individuazione. Considerando che gran parte della sua vita era stata dedicata allo studio del simbolismo alchemico e al problema della sintesi degli opposti, Jung giunse a ritenere probabile un particolare influsso “sanguineo”: “ho la netta sensazione”, avrebbe rivelato nelle sue memorie, “di essere sotto l’influenza di cose o problemi che furono lasciati incompiuti o senza risposta dai miei genitori, dai miei nonni, e anche dai miei più lontani antenati. Spesso sembra che vi sia in famiglia un karma impersonale che passa dai genitori ai figli. Mi è sempre sembrato di dover rispondere a problemi che il destino aveva posto ai miei antenati, e che non avevano avuto ancora risposta; o di dover portare a compimento, o anche soltanto continuare, cose che le età precedenti avevano lasciato incompiute”. La scoperta della parentela con Goethe lo aveva impressionato “in quanto sembrava rafforzare e al tempo stesso spiegare le mie singolari reazioni al Faust. E’ vero che non credevo nella reincarnazione, ma il concetto che gli indiani chiamano karma mi era istintivamente familiare […] allora […] non sapevo […] che il futuro è preparato nell’inconscio già molto tempo prima, e che perciò può essere indovinato dai chiaroveggenti”. Il fascino che il Faust esercitava su Jung non era dovuto soltanto a questo legame di “sangue”; se Jung considerava il proprio lavoro sull’alchimia come un “segno” della propria “relazione interiore con Goethe”, la lettura giovanile del Faust gli aveva rivelato l’universo della filosofia ermetica, svelandogli anche il problema del male che avrebbe approfondito nella formulazione della teoria sulla quaternità divina, ovvero della reintegrazione del diavolo in Dio e della conciliazione dei contrari.

La scoperta dell’alchimia
Jung si occupò dell’alchimia per quasi trent’anni, a partire dal 1928 - quando il missionario protestante e sinologo Richard Wilhelm gli inviò il trattato taoista Il segreto del fiore d’oro con la preghiera di un commento - sino alla vigilia della morte. La novità e l’importanza delle ricerche junghiane consistono nell’aver stabilito che l’inconscio persegue processi che si esprimono attraverso un simbolismo alchemico e che tendono a risultati psichici omologabili ai risultati delle operazioni ermetiche. Nell’intimo dell’inconscio avrebbero luogo processi che somigliano in modo sorprendente alle tappe di un’operazione spirituale - gnosi, mistica, alchimia – che non si dà nel mondo dell’esperienza profana e che, al contrario, rompe radicalmente con il mondo profano: “Notai ben presto” rivelò Jung nella sua autobiografia, “che la psicologia analitica concordava stranamente con l’alchimia. Le esperienze degli alchimisti erano, in un certo senso, le mie esperienze, e il loro mondo era il mio mondo. Naturalmente questa fu per me una scoperta importante: avevo trovato l’equivalente storico della mia psicologia dell’inconscio”. Nel 1914, la psicologia aveva già inaugurato lo studio dell’alchimia con la pubblicazione dell’opera di uno dei più brillanti allievi di Freud, Herbert Silberer (che si suicidò in seguito alla rottura con il maestro). Silberer aveva posto per primo l’attenzione sulla possibilità di individuare connessioni feconde tra l’alchimia e la psicologia. Ma Jung non era rimasto particolarmente attratto dalle conclusioni del collega. Questa iniziale sottovalutazione dell’alchimia cedette presto il passo a un crescente e ininterrotto interesse per essa, riscontrabile a pieno nella ricostruzione autobiografica: “Solo dopo aver letto Il fiore d’oro […] cominciai a intendere la natura dell’alchimia. Ero desideroso di avere una più diretta conoscenza degli alchimisti, e diedi incarico a un libraio di Monaco di tenermi al corrente di qualsiasi libro di alchimia gli capitasse. Poco dopo ricevetti il primo di essi, Artis Auriferae Volumina Duo (1593), una vasta raccolta, tra i quali un certo numero di classici dell’alchimia. Lasciai questo libro da parte, quasi senza toccarlo, per circa due anni. Di tanto in tanto davo un’occhiata alle figure, e ogni volta pensavo: ‘Signore Iddio, che assurdità! Non se ne capisce nulla!’ Ma non me ne potevo staccare e decisi di impegnarmi più a fondo”. L’alchimia divenne la chiave di volta del suo sistema e rappresentò il superamento di una crisi professionale, di un’imbarazzante aporia dovuta alla mancanza di prove a sostegno della teoria dell’inconscio collettivo, i cui risultati, fondati su studi protrattisi per quindici anni, erano riconosciuti dallo stesso Jung come “campati in aria”, in attesa di un riscontro scientifico, di una prova che ne suffragasse la validità. Jung, dunque, iniziò le sue ricerche partendo da un testo di alchimia orientale e, sebbene si concentrò principalmente sull’alchimia occidentale, egli ebbe modo di conoscere il legame dell’alchimia orientale con lo yoga, il tantrismo e il taoismo. Nel commento al trattato cinese troviamo infatti i temi tipici dell’alchimia orientale, le pratiche dello yoga e il pranayama, la creazione del corpo immortale, la teoria del centro, i mandala, la coincidentia oppositorum (anche se per Jung l’unione degli opposti è interpretata come “un processo di sviluppo psichico che si esprime in simboli”). Il testo inviatogli da Wilhelm conteneva quei passi che lo psicologo zurighese aveva cercato invano negli gnostici e divenne l’occasione tanto agognata per poter pubblicare, almeno in forma provvisoria, alcuni risultati fondamentali delle sue ricerche. Soltanto in un secondo tempo, in seguito allo studio dei trattati latini, Jung si rese conto dell’importanza fondamentale del carattere alchemico di quel trattato.

Dalla gnosi all’alchimia
L’incontro con l’alchimia gli fornì quindi le basi storiche che fino a quel momento aveva inutilmente cercato soltanto nello gnosticismo. La tesi di laurea sull’analisi delle capacità medianiche della giovanissima cugina Elena, trovarono continuazione nello studio dell’ermetismo. Lamentando l’incertezza scientifica degli studi conseguiti, tra il 1918 e il 1926 aveva iniziato ad approfondire lo studio della letteratura gnostica poiché in essa ritrovava un confronto con il mondo originario dell’inconscio; gli gnostici avevano avuto infatti a che fare con i contenuti dell’inconscio, “con immagini che erano chiaramente contaminate dal mondo degli istinti […] Ma gli gnostici erano troppo lontani perché mi fosse possibile stabilire un qualsiasi legame con loro circa i miei problemi […] Ma quando cominciai a capire l’alchimia mi resi conto che rappresentava il legame storico con lo gnosticismo, e che perciò c’era una continuità tra il passato e il presente. Fondata sulla filosofia naturale del medioevo, l’alchimia costituiva un ponte verso il passato, con lo gnosticismo, e verso il futuro con la moderna psicologia dell’inconscio”. L’Ars si rivelò agli occhi di Jung come “l’anello di congiunzione, da tanto tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell’inconscio collettivo osservabili nell’uomo d’oggi”. Jung era colpito dall’analogia tra il simbolismo onirico - sogni, visioni ad occhi aperti, allucinazioni - o disegni spontanei di alcuni suoi pazienti e il simbolismo alchemico; egli accordava un’importanza capitale all’interpretazione dei sogni, “questa mitologia mascherata dell’uomo moderno” come sarebbe stata definita da Mircea Eliade, il massimo storico delle religioni. L’ermeneutica eliadiana sull’alchimia, seppur autonoma e precedente agli studi dello psicologo svizzero, in quanto frutto di un complesso percorso scientifico diverso e indipendente, più vicino ai Tradizionalisti Evola, Guenon, Coomaraswamy, Needham e ad occultisti quali Steiner, è stata spesso rapportata, seppur impropriamente, a quella junghiana.

Il metodo psicologico
Per comprendere il significato e la funzione delle immagini oniriche, Jung intraprese con perseveranza lo studio degli scritti alchemici classici; per quindici anni svolse le sue ricerche senza pubblicare niente ed evitando di parlarne sia con i suoi pazienti, per evitare di influenzarli, sia con i suoi collaboratori per sfuggire il rischio di suggestione. A differenza però del metodo storico-fenomenologico utilizzato da Eliade nelle sue ricerche sull’alchimia, del metodo ermeneutico di filosofi quali T. Burkhardt e delle analisi esoteriche di autori come Evola, Guénon, Meyrink, etc., Jung apparve sempre memore del suo ruolo di psichiatra: non intendeva andare oltre il contenuto psicologico dell’esperienza umana e non si pose né il problema della trascendenza né il problema della realtà di Dio. Jung considerava l’esperienza religiosa vera, reale, ma su di essa non diede alcun giudizio di valore; allo stesso modo egli considerava le operazioni alchemiche reali, ma questa realtà è psicologica, non fisica, né tantomeno metafisica.

La conciliazione dei contrari
Jung ha definito l’alchimia una tecnica spirituale in un periodo storico in cui essa era considerata, eccezion fatta per gli ambienti esoterici e per qualche filosofo, una mera pre-chimica, una scienza “embrionale” sperimentale. Ma l’alchimia era e rimase, per lo psichiatra svizzero, la proiezione di un dramma cosmico e spirituale in termini di laboratorio; essa è una proiezione degli archetipi e dell’inconscio collettivo sulla Materia, è l’opera finalizzata alla liberazione dell’anima umana dalla materia e all’apocatastasi, alla rigenerazione e salvezza finale del Cosmo: essa prolunga e compensa il cristianesimo che ha salvato l’uomo ma non la Natura. L’alchimista sogna di sanare il Mondo nella sua totalità, riconducendo ad unità gli opposti, reintegrando il diavolo, il Male, in Dio. Sul piano psicologico si tratta di lottare con Satana e di vincerlo, di assimilarlo, cioè, alla coscienza. In tutta la sua immensa produzione scientifica, Jung sembra essere ossessionato dalla reintegrazione degli opposti. A suo parere l’uomo non può raggiungere l’unità se non in quanto riesce a superare continuamente i conflitti che lo lacerano interiormente. Come ha giustamente rilevato Eliade, la reintegrazione dei contrari è la chiave di volta dell’intero sistema junghiano. Ed è stata la coincidentia oppositorum a spingere Jung a interessarsi alle discipline orientali che gli rivelavano i mezzi per trascendere le molteplici polarità per conseguire l’unità spirituale. L’opus aveva pertanto il duplice compito di liberare l’anima mundi, lo spiritus mercurius imprigionato nella Materia e di guarire il Cosmo; ma ciò che gli alchimisti chiamavano “anima” era in realtà il “Sé”, mentre la “materia” era in effetti la loro vita psichica. Ora, il compito dell’opus era di trasfigurare e redimere questa materia, di ottenere la pietra filosofale, il corpo di gloria. Se Cristo era il Filius Microcosmi che aveva salvato soltanto l’uomo, il lapis rappresentava il Filius Macrocosmi che avrebbe condotto a redenzione il cosmo intero. La tradizione dell’apocatastasi di Origene, Gregorio di Nissa e Schelling rivive nell’obbiettivo dell’alchimia che a livello psicologico rappresenta anche il processo di individuazione attraverso il quale si diviene Sé. Lettore attento di I. Kant fin dalla giovinezza, Jung aveva imparato la lezione della Critica della ragion pura, e ha voluto arrestare le proprie ricerche alle soglie della “tentazione metafisica”, per evitare di cadere oltre la propria competenza scientifica. Egli non volle permettersi di ipostatizzare il noumeno kantiano riempiendolo di una verità metafisica o teologica; ciò gli impedì di esprimere le proprie credenze personali, soggettive, che esulano dall’ambito psichiatrico. Jung partì così da una prospettiva universalista per approdare ad un’antropologia applicata; il suo empirismo lo portava a preoccuparsi dell’uomo concreto, ovvero dei suoi pazienti. Per Jung il mito ha senso solo come problema dell’uomo interiore: la psicologia parte dalla vita psichica individuale e per interpretarla fa riferimento alla mitologia e al “serbatoio” simbolico dell’umanità.

Il rifiuto dell’iniziazione
Sebbene citasse esoteristi quali Meyrink ed Evola, Jung prese le distanze dalle interpretazioni esoteriche contemporanee dell’alchimia, ravvisando in esse insegnamenti oscuri e pericolosi (in un certo senso fu in parte fedele alla promessa che Freud gli chiese di fargli prima della rottura, ovvero di combattere l’occultismo: “Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità. Questa è la cosa più importante. Vedete, dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo” gli chiese un giorno Freud. Alla domanda sorpresa rispetto a che cosa dovesse farne un baluardo, Freud rispose: “Contro la nera marea di fango […] dell’occultismo”!). Il proposito di chiarimento scientifico da parte di Jung, il desiderio di tradurre qualsiasi elemento religioso e alchemico in termini scientifici, chiari, contro il pericolo di deviazioni esoteriche, si scontra con le posizioni scientifiche del periodo (prima fra tutte quella di Eliade) che invece Jung, da buon kantiano, intendeva combattere con spirito empirico e rigore scettico. Niente di più distante dalle primissime accuse di misticismo mossegli dai colleghi psichiatri in seguito alla rottura con Freud, rottura che lo vide emarginato dal campo accademico per alcuni anni. Jung non era interessato ad alcun tipo di “iniziazione”, e questo suo atteggiamento diffidente nei confronti dell’iniziazione si sarebbe rivelato a pieno durante il suo viaggio in India nel 1938, quasi una fuga dall’intenso studio dell’alchimia. Se molti pensatori, come Eliade ed Hesse, hanno scoperto le dottrine esoteriche proprio durante il soggiorno in India, Jung non volle né approfondire lo studio dell’ermetismo sul suolo indiano, né confrontarsi con yogin o saggi indiani. Egli avrebbe raccontato nelle sue memorie di aver cercato accuratamente di evitare d’incontrare i “cosiddetti ‘santoni’”, perché doveva elaborare la sua verità, una verità personale, e non voleva accettare da altri ciò che non avrebbe potuto raggiungere con le sue sole forze: “mi sarebbe parso un furto se avessi appreso dai santoni la loro verità per farla mia. La loro saggezza appartiene a loro, e a me appartiene soltanto ciò che procede da me stesso. Come europeo non posso prendere nulla in prestito dall’Oriente, ma devo plasmare la mia vita da me stesso, secondo quanto mi suggerisce il mio intimo o mi apporta la natura”. Con questa ammissione “socratica”, Jung sembra eludere qualsiasi tipo di dialogo interculturale, qualsiasi ricerca conoscitiva, filosofica, religiosa che non scaturisca dell’inconscio.

Le critiche dei Tradizionalisti
Non a caso meritò le critiche caustiche dei Tradizionalisti e di numerosi filosofi e studiosi quali Titus Burckhardt e Joseph Needham. Celebri le ripetute critiche di Guénon al misticismo e a qualunque interpretazione “psicologica” della metafisica e dell’alchimia (critica ante litteram agli studi junghiani sull’alchimia, ripresa successivamente da Evola). La metafisica è per definizione al di là dei fenomeni, essendo il suo dominio il soprannaturale; gli stati “iniziatici” di cui parla Guénon non hanno nulla di “psicologico”: “la psicologia […] non può aver presa che su stati umani”, stati che invece esulano dal campo metafisico, a cui appartiene l’alchimia. L’esoterista francese si trovò costretto a chiarire in questo senso la possibile comparsa di fenomeni speciali durante il lavoro di realizzazione metasifica, ovvero le siddhi, i poteri prodigiosi dello yoga e dell’alchimia indiana. Questi fenomeni non possono in alcun modo essere spiegati come proiezioni psichiche; al contrario, si producono “in maniera del tutto accidentale […] ed un tale evento è piuttosto fastidioso, giacché le cose di questo genere non possono essere che d’ostacolo a colui che fosse tentato di annettervi qualche importanza”. Similmente, Evola ebbe modo di liquidare l’ermeneutica junghiana sia riguardo il tantrismo e il mysterium conjunctionis, sia specificamente riguardo l’alchimia. Jung avrebbe interpretato la coincidentia oppositorum “nei termini divaganti di una unione del conscio col famoso inconscio, mentre si tratta di qualcosa di assai più profondo e serio”, riducendo la sintesi degli opposti a proiezioni mentali dell’inconscio collettivo e ad “esigenze” che nell’uomo “la parte oscura e atavica della psiche farebbe valere di contro a quella conscia e personale”, per cui: “non è solo evidente una confusione di termini ma, attraverso l’abusato concetto dell’inconscio e la mobilitazione di una fenomenologia da psicopatici, si riconferma la generale tendenza moderna a ricondurre ogni cosa a misure semplicemente umane […] Di fatto, tutte le interpretazioni di Jung finiscono su di un piano molto banale, e la sua intuizione della realtà sovraindividuale ed eterna degli ‘archetipi’ […] si vanifica o degrada nei termini di qualcosa di contraffatto, causa una deformazione professionale di mentalità […] e la mancanza di adeguati punti dottrinali di riferimento”. Riguardo invece allo studio dell’alchimia, secondo Evola Jung e la sua scuola avrebbero visto nell’Ars solo delle “farneticazioni e si sarebbero perseguite delle chimere se essa non dovesse essere riportata a ‘proiezioni’ nelle cose di contenuti psichici, specie dell’inconscio, e se nei suoi procedimenti considerati non fosse stato prefigurato confusamente quello che Jung chiama ‘il processo di individuazione’, ossia il processo in cui si esprime una tendenza profonda verso il compimento dell’essere individuale manifestatesi, peraltro, anche in altre, più riconoscibili forme”. L’interpretazione “ermetica” si differenzia, infatti, da quella psicanalitica in quanto essa “sorpassa” il piano della semplice psicologia riferendo i simboli alchemici a delle “realtà interiori” e vede nelle pratiche dell’opus la “descrizione di operazioni a carattere autenticamente iniziatico. Non si tratterebbe, pertanto, di una fantasmagoria prodotta quasi coattivamente dalle forze dell’inconscio e tale che della sua vera natura gli stessi alchimisti non si rendevano conto; ci si troverebbe invece nel dominio di una scienza avente sue precise strutture, scienza non meno reale per il fatto di non avere a che fare con cose materiali ma di essere essenzialmente una ‘scienza spirituale’”. Infine, Evola criticò la sfrontatezza junghiana che si celava dietro un’inconsistente sicurezza che gli esperimenti alchemici fossero solo frutto della fantasia, leggenda: “E’ al di là di ogni dubbio che una vera tintura o un oro artificiale non furono mai prodotti durante i molti secoli di seria e tenace applicazione. Ci sembra quindi lecito chiedere: che cosa ha indotto gli antichi alchimisti a proseguire indefessamente nel loro lavoro […] se tutta la loro impresa era irrimediabilmente disperata?”, si domandava Jung in Psicologia e Alchimia (opera che contiene la summa delle ricerche junghiane sull’alchimia). Da un’ottica diversa ma con tono simile si sono espressi Needham e Burckhardt; Needham ha ritenuto che Jung volesse ridurre la storia dell’alchimia e la storia delle religioni ad una serie di manifestazioni di “alienazione mentale, vale a dire ad una storia della patologia, e ridurre i contenuti dell’alchimia a ‘neurotic and psychotic content’”. Su questa linea Titus Burckhardt, impegnato nella difesa di una interpretazione spiritualistica dell’alchimia, ha messo in guardia dai “pericoli” dell’impostazione junghiana relativa alla trattazione generale delle religioni e in particolare a quella dell’alchimia. Tra questi “pericoli” egli segnala “il non saper distinguere i simboli genuini dalle distorsioni dei simboli stessi; un esempio è l’equiparare il mandala dell’estremo oriente ai dipinti concentrici degli alienati mentali”.

Proiezioni psichiche involontarie
Jung rettificò la concezione accademica che faceva dell’alchimia uno stadio embrionale della chimica, spiegando la nascita della chimica dalla destrutturazione e dalla perdita del significato originario dell’Ars. L’alchimia nasce e si sviluppa come tecnica al tempo stesso spirituale e operativa e la causa del suo declino sarebbe da rinvenire nella sua oscurità, in quanto il suo metodo “obscurum per obscurius, ignotum per ignotius” mal si conciliava con lo spirito dell’illuminismo e con le scienze empiriche che si andavano perfezionando nel corso del diciottesimo secolo. La disgregazione interna dell’alchimia sarebbe cominciata però un secolo prima “quando molti alchimisti avevano abbandonato alambicchi e crogioli per dedicarsi esclusivamente alla filosofia (ermetica). Allora il ‘chimico’ si separò dal ‘filosofo ermetico’. La chimica divenne una scienza naturale; la filosofia ermetica abbandonò le sue basi empiriche e si smarrì in allegorie e speculazioni pletoriche e prive di contenuto, che sopravvissero unicamente grazie al ricordo dei tempi migliori”. Questi “tempi migliori” sarebbero stati quelli in cui l’adepto aveva lottato “realmente” con i problemi della materia, “quando la coscienza indagatrice s’era trovata davanti allo spazio oscuro dell’ignoto e aveva creduto di ravvisarvi figure e leggi, che tuttavia non avevano origine nella materia, bensì nell’anima”; da questo punto di vista la disamina junghiana introduce il concetto fondamentale di “proiezione” per interpretare in termini psicologici il fine e il processo alchemico. Così “tutto ciò che è ignoto e vacuo viene riempito da proiezioni psicologiche” e ciò che l’alchimista crede di riconoscere nella materia è invece costituito, secondo Jung, dai “dati del proprio inconscio che egli vi proietta”. L’adepto vede e scopre nella materia qualità e significati che solo “apparentemente” le appartengono, “ma la cui natura psichica è completamente inconscia a chi osserva”. Secondo Jung all’alchimista era ignota “la vera natura della materia”, e tentando inutilmente di indagarla egli “proiettava sull’oscurità della materia, per illuminarla, l’inconscio. Per spiegare il mistero della materia, proiettava un altro mistero, e precisamente il proprio retroscena psichico sconosciuto, su ciò che doveva essere spiegato: ‘Obscurium per obscurius, ignotum per ignotius’! Questo non era, beninteso, un metodo intenzionale, ma un accadimento involontario. Una ‘proiezione’, a rigore, non viene mai fatta: ‘avviene’, in essa ci si imbatte. Nell’oscurità di un fatto esteriore scopro, senza riconoscerla come tale, la mia vita interiore, o psichica”. Definire l’alchimia, allo stesso modo dell’astrologia, come un complesso di proiezioni che avvengono ogni qual volta l’uomo tenta di esplorare “una vuota oscurità e involontariamente la riempie di figurazioni vive”, significa però invalidare il preteso senso spirituale dell’alchimia e far entrare dalla finestra lo spirito positivista e riduzionista che ci si era premuniti in buona fede di far uscire dalla porta! E così, durante il lavoro pratico, l’alchimista si sarebbe imbattuto anche in “percezioni allucinatorie o visionarie” spiegabili in termini di esperienze reali e non allegorie, con proiezioni, cioè, di contenuti inconsci! L’interpretazione junghiana dell’alchimia pecca pertanto di riduzionismo psicologico ed è per questo motivo che gli esoteristi, i Tradizionalisti e alcuni filosofi gli hanno rimproverato, come abbiamo visto, di aver tradotto in termini psichici un simbolismo e un processo di realizzazione che erano, invece, transpsichici, metafisici. Nonostante la famosa replica di Jung e la difesa dei suoi allievi a tali obiezioni, la lettura psicologica unilaterale distorce il senso originario dell’opus; se è vero che ogni esperienza spirituale implica un’attualità psichica che lo psicologo si sente di dovere di indagare, non si giustifica con ciò un’interpretazione psichica che fa dei fatti metafisici o religiosi soltanto qualcosa di psichico, che riporta cioè i processi e i simboli alchemici a elementi di proiezione dell’inconscio e che, per questo, si ferma sostanzialmente a un piano superficiale dell’indagine scientifica che andrebbe, invece, approfondita e integrata con uno studio filosofico, metafisico ed esoterico dell’oggetto in questione, (anche se non dobbiamo dimenticare che per Jung l’inconscio era “kantianamente” un concetto limite, non riducibile a semplice psichico). Non credendo né alla realtà dei risultati delle pratiche alchemiche, né al valore metafisico della realizzazione ermetica, Jung si è spinto tanto oltre da mistificare lo spirito metafisico della Tradizione Ermetica evoliana interpretandone alcuni passaggi in chiave psicologica e servendosi di essi per dimostrare che l’opera alchimistica consisteva in processi psichici “espressi in linguaggio pseudochimico”!

Alchimia e Cristianesimo
Originali sono invece l’insistenza sul parallelo tra il lapis e il Cristo, di ascendenza gnostica. Riferendosi soprattutto a testi dell’alchimia medievale, o comunque occidentale, Jung si è soffermato sul valore psicologico dell’opus come movimento di compensazione al cristianesimo. Nonostante l’interesse per la filosofia e la religione orientale, Jung ha preferito delimitare i propri studi ai testi occidentali, compiendo soltanto brevi “peregrinazioni” nell’ambito dell’ermetismo indiano (non possiamo dimenticare il suo studio sui mandala). Così in Jung l’Ars si configura come una tecnica di salvezza, una “vera e propria dottrina della redenzione”, in quanto riconosce un significato redentivo al processo d’individuazione, fine ultimo dell’alchimia. Il parallelo con il cristianesimo serve per distinguere tra la formulazione cristiana per cui l’uomo è colui che deve essere redento dal Cristo salvatore (o dalla grazia divina), e quella alchimistica per la quale l’uomo è colui che deve redimere se stesso e il Cosmo. Nel secondo caso l’uomo si assume il compito di liberazione e redenzione dell’anima mundi imprigionata nella materia; ma, “in tutti e due i casi, la redenzione è un’opera. Nel caso cristiano si tratta della vita e della morte dell’uomo-Dio che, in quanto sacrificium unico, provoca la conciliazione dell’uomo bisognoso di redenzione, perso nella materia, con Dio. L’effetto mistico dell’autosacrificio dell’Uomo-Dio si estende generalmente a tutti gli uomini, in modo efficace però agisce soltanto su coloro che si sottomettono alla fede o sono prescelti per grazia”. Qui si inserisce un passaggio obbligato: l’insistenza sui Misteri come anticipazione dell’ideologia cristiana e alchemica basate sul paradigma di sofferenza, morte e resurrezione del dio o del miste. Se nel cristianesimo il credente guarda al suo Redentore sforzandosi di giungere alla sua imitatio, nell’alchimia l’adepto proietta la vicenda drammatica della sofferenza e della morte sulla Materia. Nella disamina junghiana per l’alchimista non è l’uomo a necessitare della redenzione ma, in termini gnostici, “la divinità perduta e dormiente nella materia”, per cui la sua attenzione verte sulla “liberazione di Dio dalle tenebre della materia” e, l’alchimista, in quanto si applica a “quest’opera miracolosa, beneficia, ma incidentalmente, del suo effetto salutare. Egli può affrontare l’opera come persona bisognosa di redenzione, ma sa che la sua redenzione dipende dal successo dell’opera, cioè dal fatto di liberare l’anima divina. A questo scopo ha bisogno di meditazione, digiuno, preghiera”.

domenica 22 febbraio 2004

VITA, AVVENTURE E MAGIA DI JOHN DEE ED EDWARD KELLEY

di Enrica Perucchietti


L’Inghilterra rinascimentale diede gli albori e conobbe uno dei più grandi e discussi maghi della storia, John Dee. Nato a Londra il 13 luglio 1527, divenuto matematico, geografo, astrologo e alchimista morì in miseria all’età di 81 anni, durante il regno di James i, grande nemico di maghi e negromanti, autore del famoso trattato Demonologia, divenuto in seguito la “Bibbia” dei cacciatori di streghe. Grazie al favore di Elizabeth i aveva conosciuto la gloria e gli onori di corte ma l’incontro con Edward Kelley ne aveva determinato la progressiva disgrazia. La sua vita travagliata e avventurosa è stata descritta dal romanziere austriaco Gustav Meyrink nell’Angelo della finestra occidentale e si dice che abbia ispirato anche Shakespeare per il personaggio di Prospero che, nella Tempesta, ha ai suoi comandi lo spiritello Ariel (l’angelo di Dee si chiamava Uriel).
Nato in una famiglia benestante, John era il figlio unico di Jane e Roland Dee. Quest’ultimo si accorse presto delle straordinarie capacità del figlio e lo indirizzò allo studio della Letteratura greca e latina. Completati brillantemente gli studi a Chelmsford, fu mandato dal padre a Cambridge, al Corso di Scienze superiori. Acquisì una cultura vastissima, lavorando con un ritmo di studio che sfiorava le 18 ore al giorno! A Cambridge si diffuse per la prima volta, seppur ingiustamente, l’accusa di stregoneria nei suoi confronti. Paradossalmente in quel periodo non si era ancora appassionato alle scienze occulte e l’accusa che gli era stata mossa era nata a causa delle sue straordinarie capacità di inventore. Era stato infatti l’artefice di un’invenzione meccanica per la rappresentazione della Pace di Aristofane: aveva creato uno scarafaggio volante o Scarabeus, che aveva davvero volato trasportando al suo interno un uomo e un cestello di cibo. Si era iniziata così a spargere la voce che avesse compiuto un tal prodigio con l’aiuto di “forze demoniache”. Nel 1546 abbracciò la passione per l’astronomia che conciliò con lo studio delle influenze astrologiche. Ottenuta la laurea di Professore d’Arte, ma insoddisfatto delle ricerche scientifiche sul suolo inglese, decise di recarsi a Louvain, vicino a Bruxelles, vivido centro culturale sede di matematici. Qui all’insegnamento oppose segretamente lo studio delle arti occulte.


La persecuzione dei Dee
Alla morte di Edward vi, ebbe inizio la persecuzione della famiglia Dee, per mano della cattolicissima Mary detta la “Sanguinaria” che aveva indetto una campagna di terrore contro i principali esponenti del Protestantesimo. Il 1553 vide l’arresto di Roland che venne presto rilasciato, ma privato dei beni e di tutte le attività finanziarie. Anche John si trovò in difficoltà economiche in quanto aveva potuto dedicarsi fino a quel momento allo studio grazie alla ricchezza del padre. Il 28 maggio 1555 John venne accusato di aver attentato alla vita della regina con le arti magiche e imprigionato. Fu giudicato prima dalla Camera stellata del Westminster, che lo prosciolse, poi da un tribunale ecclesiastico che lo condannò, in un periodo in cui anche la matematica era guardato con sospetto! Nell’agosto dello stesso anno, dopo tre mesi di prigionia, venne rilasciato su decisione di un Consiglio, forse in seguito all’intervento dell’allora principessa Elizabeth. Da quel momento John, il cui padre era morto nello stesso anno senza lasciargli alcuna eredità, si avvicinò apparentemente all’ala cattolica, riconciliandosi con la regina Mary. Si è teorizzato a più riprese che il “cambiamento politico” di Dee fosse dovuto all’attività spionistica che svolgeva per la protestante Elizabeth e che avrebbe continuato a svolgere durante il suo regno.


Alla corte di Elizabeth I
Alla morte della regina Mary, Dee venne convocato a corte e incaricato di redigere un oroscopo per accertare la data più favorevole per l’ascensione al trono di Elizabeth. Fu in questo periodo che gli venne presentato Sir Francis Walsingham, capo dei servizi segreti della nuova regina…
Nel 1563, annoiato dalla vita di corte, riprese a viaggiare; di ritorno ad Anversa ebbe modo di scrivere, si dice in soli 12 giorni e sotto ispirazione mistica, la Monade Hierogliphica, la più famosa delle sue opere ermetiche. Tornato in Inghilterra nel 1566 si stabilì con la madre a Mortlake. Qui raccolse tutti i libri e gli antichi cimeli in quella che divenne la sua famosa biblioteca e che fu tristemente depredata e bruciata durante il suo soggiorno a Praga. Sposò in prime nozze Lady Eleonore Huntington, un’amica d’infanzia della regina, che morì in circostanze misteriose neanche un anno dopo il matrimonio. Rimasto vedovo Dee entrò sempre più nelle grazie della regina che prese l’abitudine di chiamarlo sovente a corte per ricevere lezioni private… Il 5 febbraio 1578, quasi a sedare voci maliziose sull’amicizia con la regina, John sposò la giovanissima Jane Fromond, che gli diede ben otto figli.


L’incontro con Edward Kelley
Il 1582 vide l’avvenimento chiave della vita di Dee: l’incontro con Edward Kelley, un veggente dal passato oscuro. Qualche anno prima l’angelo Uriel era apparso a Dee entrando in volo da una finestra, consegnandogli una pietra rotonda e convessa simile a un cristallo nero della grandezza di un’arancia, che gli avrebbe permesso di ricevere delle visioni dai mondi ultraterreni. Dee aveva tentato di utilizzare il cristallo, ma inutilmente. Per poterlo utilizzare aveva ingaggiato un medium, un certo Barnabas Saul, le cui doti di veggente non erano però abbastanza spiccate; Saul iniziò a temere le evocazioni che Dee voleva che effettuasse e pare che rivelasse informazioni sugli esperimenti di Dee ai suoi detrattori. La seconda scelta cadde su Edward Kelley, figura circondata da un denso alone di mistero. Alcuni hanno voluto vedervi solo uno scaltro impostore che condusse alla rovina il povero Dee. Altri hanno ritenuto vere le sua capacità medianiche, nonostante la sua attività di truffatore e il suo temperamento venale dedito agli eccessi. Il vero nome di Kelley era Edward Talbott; nato in Inghilterra nel 1555, si pensa che avesse lavorato come apprendista farmacista, fino a quando fu scoperto nell’atto di falsificare documenti del suo ufficio, destituito e punito con il taglio delle orecchie (che copriva con un berretto nero aderente). Si diceva che Kelley fosse avvezzo alla magia nera e che, in compagnia dell’amico Waring, avesse praticato un incantesimo di negromanzia disseppellendo il cadavere di una donna e dopo averla rianimata costretta a rispondere alle domande dei due maghi. Kelley era entrato misteriosamente in possesso di un’antica pergamena e di due fiale provenienti dalla tomba di un vescovo. La pergamena riportava notizie utili per la trasmutazione alchemica, operazione che Kelley non era però in grado di praticare da solo. Essendogli nota la fama di Dee come alchimista si era rivolto a lui per offrirgli lo scritto e le fiale in cambio del suo aiuto. Ebbe così inizio una lunga collaborazione che fu la causa delle sventure di Dee e che ne vide la progressiva discesa nell’inferno della negromanzia e delle evocazioni spiritiche.


Le evocazioni “angeliche”
Presto riuscirono a trasformare in laboratorio una libbra di piombo in una libbra di oro. Dee assunse Kelley come veggente a tempo pieno, essendosi dimostrato abile nell’arte “medianica”. Kelley illuse Dee di poter conseguire la verità ultima sull’universo attraverso le rivelazioni angeliche. Predisse con quattro anni di anticipo l’esecuzione di Mary Stuart e la venuta dell’Invincibile Armata. Saul, durante un’evocazione, aveva ricevuto un messaggio dall’angelo Annael, che riferiva che Dee avrebbe ricevuto le rivelazioni che desiderava da colui al quale era assegnato il cristallo. La profezia convinse Dee che il prescelto fosse Kelley. Cominciarono così a evocare gli “angeli”, primo fra tutti Uriel; le loro evocazioni attirarono l’attenzione di un nobile polacco, Albert di Lasky, che la regina aveva invitato ad assistere agli esperimenti. Dee e Kelley gli riferirono che gli angeli avevano loro profetizzato che sarebbe diventato re della Polonia e che con il loro aiuto avrebbe ottenuto la vita eterna (invece lo rovinarono economicamente dissipandone le finanze!). Il principe, convinto, li invitò a seguirli a Cracovia. Il 21 settembre 1583 Dee e Kelley partirono da Mortlake con le rispettive famiglie, al seguito di Lasky. Giunti al castello furono accolti per cinque settimane con grandi onori, prima per dirigersi a Praga alla corte di Rodolfo ii, protettore di maghi e alchimisti. Sembra che l’imperatore avesse dubitato immediatamente della sincerità di Dee che fu costretto ad abbandonare Praga e a tornare, il 2 aprile 1585 a Cracovia. Ma le cose precipitarono. Essendo venuto a conoscenza della fama di Dee, il re Stefano lo accolse alla sua corte, curioso di assistere a una delle sue famose evocazioni angeliche. Ma quando si trovò presente all’atto pratico si spaventò, abbandonando i due maghi e negando loro protezione. Alla fine di luglio Dee tornò a Praga in pessime condizioni finanziarie. Lo attendevano traversie peggiori: fu infatti pedinato da Francesco Pucci, spia fiorentina del Sant’Uffizio, che su richiesta del vescovo di Piacenza aveva avuto istruzioni di condurlo a Roma per essere processato. Il 6 maggio 1586 il nunzio papale consegnò a Rodolfo ii una lettera di accusa di negromanzia nei confronti di Dee e Kelley, con la richiesta di arrestarli e inviarli a Roma. Rodolfo riuscì a eludere l’ordine pontificio, limitandosi a espellere i due maghi dai sui territori. Dee soggiornò al castello di Tresbona dal nobile Guglielmo Ursino, signore di Rosenberg dal 1586 al 1589, anno della rottura con Kelley. Quest’ultimo aveva rivelato al suo padrone che lo spirito di un angelo di nome Madimi, che si presentava sotto le sembianze di una bambina, aveva loro ordinato di condividere ogni cosa, anche le mogli! Non conosciamo l’immediata reazione di Dee. Sappiamo però che la bella moglie, Jane, rimase sconvolta dalla notizia (secondo Meyrink si suicidò) e che John, nonostante avesse giurato obbedienza ai precetti angelici, iniziò a convincersi delle mistificazioni di Kelley e della natura demonica delle entità evocate. Nel 1589, richiamato a Londra da Elizabeth, Dee abbandonò definitivamente Kelley. Tornato in patria la regina lo nominò rettore del Christ’s College di Manchester, nonostante il suo rientro fosse visto di mal occhio dalla nobiltà inglese. Alla morte della regina, avvenuta nel 1603, seguì quella della moglie Jane nel 1605: da quel momento la salute e le finanze di Dee iniziarono a deteriorarsi. Il nuovo re, James i, nemico di maghi e negromanti, gli permise, però, di trascorre gli ultimi anni di vita in pace. Si spense nel 1608 e fu sepolto nella Chiesa di Mortlake. Kelley, invece, venne imprigionato per pratiche occulte e morì nel 1593 o 1595 durante il tentativo di fuga cadendo da una finestra.

Magia Enochiana
La gente cominciò a interessarsi alla Magia Enochiana nel 1912, quando Aleister Crowley pubblicò The Equinox. Si iniziò così a conoscere la magia enochiana di Dee e Kelley, rielaborata in forma sistematica da S. L. MacGregor Mathers e utilizzata da Crowley. Il compito di Kelley era di guardare nella pietra che Uriel aveva donato a Dee, descrivendo cosa vedeva al suo interno. Qualche volta uno spirito usciva dalla pietra, parlando o emettendo profezie. Gli angeli avevano insegnato a Kelley il loro alfabeto detto enochiano (corrispondente alla lingua che sarebbe stata parlata da Adamo nel Paradiso Terrestre, prima del peccato originale, lingua dotata di una propria grammatica e sintassi). Vi sono in tutto 19 “Chiamate” o “Chiavi”; le “chiamate” venivano inoltre dettate a rovescio. La ragione di questa complicata procedura è che una comunicazione diretta sarebbe stata troppo potente e avrebbe evocato forze che i due maghi non sarebbero stati in grado di comandare. Per l’evocazione la pietra veniva posta sopra una “tavola santa” ornata di simboli e divisa in settori detti Aethyr, trenta in tutto, corrispondenti ognuno a una particolare regione del cosmo invisibile e governata da angeli. Lo spirito evocato indicava a Kelley un quadrato a cui corrispondeva una lettera nell’alfabeto edochiano che Dee trascriveva. La raccolta di queste tavole si chiama Liber Logaeth. Alla fine della trascrizione in senso inverso si ricavava un messaggio in lingua enochiana: rivelazioni, profezie e formule evocatorie per contattare gli spiriti degli Aethyr. La trascrizione del mitico Libro di Enoch avrebbe permesso a Dee, Kelley e ai successivi occultisti di compiere evocazioni e rituali potentissimi, e al tempo stesso di rendere immortale sia il mistero riguardante questo sistema magico sia il mito del patriarca biblico Enoch, creando innumerevoli teorie, tra la storia e la fantascienza, sulla tradizione enochiana.