ESOTERISMO

ZANONI
Di Enrica Perucchietti
Si ritiene che il titolo dell’opera più celebre di Madame Blavastky, l’Iside Svelata, sia stato ispirato da una frase della prefazione del romanzo Zanoni di Sir Edward Bulwer Lytton, autore dei più noti Gli ultimi giorni di Pompei e di Razza Ventura: “Chi, se non un Rosa-Croce, potrebbe spiegare i misteri rosacrociani? E potete immaginare che qualche membro di quella setta, la più gelosa di tutte le sette, solleverebbe egli stesso il velo che nasconde dal mondo l’Iside della loro saggezza?”. La fondatrice della Società Teosofica, se riconobbe solo in parte l’enorme debito verso Bulwer Lytton che definiva “uno che è ancora riconosciuto dalla misteriosa Fratellanza in India come un membro della loro organizzazione,” cita nell’Iside Svelata a più riprese il romanziere inglese, fin primo capitolo della prima parte dedicata alla “Scienza”, dove viene riportata come citazione introduttiva una frase tratta da Zanoni, “Noi abbiamo cominciato la ricerca nel punto in cui la congettura moderna chiude le sue ali senza fede. E dalla nostra parte avevamo quei comuni elementi di scienza che i saggi di oggi disdegnano come rozze chimere o di cui disperano di raggiungere i misteri insondabili”

Bulwer Lytton e i Rosa+Croce
Zanoni è un romanzo esoterico, un racconto iniziatico ambientato all’epoca del Terrore successivo alla rivoluzione francese tra Napoli, Venezia, Londra e Parigi. Una summa romanzata del pensiero rosacruciano e dei precetti ermetici, una storia d’amore che prende vita tra scenari storici e torbide atmosfere gotiche, popolato da figure realmente esistite e personaggi fantastici. Bulwer Lytton, oltre che amico del più famoso mago dell’Ottocento, Eliphas Levi, fu membro della Societas Rosicruciana in Anglia, un circolo occultistico fondato nel 1865 da Robert Wenthorth Little (la tradizione vuole che avesse scoperto degli antichi documenti rosicruciani, probabilmente testi della Rosacroce d’Oro tedesca del Settecento), che qualche anno più tardi iniziò a lacerarsi in seguito a una serie di scismi, generando per filiazione diretta di alcuni suoi membri, Wylliam Wynn Westcott e William Robert Woodman, (divenuto alla morte di Little nel 1878 capo della Societas Rosicruciana in Anglia) l’Ordine Ermetico della Golden Dawn. Se alcuni biografi ritengono che Bulwer Lytton si fosse affiliato ai Rosacroce durante uno dei suoi numerosi viaggi all’estero, Cristopher McIntosh ha ipotizzato che un primo contatto con il misterioso Ordine abbia invece avuto luogo come lo stesso romanziere racconta nella prefazione a Zanoni. In essa Bulwer precisa di non essere l’autore dell’opera ma solo l’editore del testo che gli sarebbe stato consegnato da un Adepto incontrato in una vecchia libreria specializzata in opere di alchimia, astrologia e cabbala, nei pressi di Covent Garden a Londra, libreria realmente esistita. Il misterioso gentiluomo della prefazione, che altri non sarebbe che Robert Glyndon, uno dei protagonisti del racconto, “pareva avesse visitato molti paesi e fosse stato testimone oculare della prima Rivoluzione francese, soggetti sul quale era eloquente ed istruttivo”, lascia in eredità a Lytton “certi preziosi manoscritti a cui il presente volume deve la sua esistenza”, “un romanzo che non è romanzo. Una verità per chi può comprenderla, una stravaganza per gli altri”. Un manoscritto di 940 pagine “scritto da capo a fondo in una scrittura inintelligibile” dotato però di un dizionario per tradurre i misteriosi geroglifici che consente all’autore di penetrare il significato del testo.

Zanoni
Protagonisti del racconto sono Zanoni, un caldeo conoscitore dei segreti ermetici sopravvissuto per ben cinquemila anni grazie all’elisir di lunga vita. Secondo una leggenda a cui Bulwer si ispira, Adamo sarebbe stato il fondatore dell’Ordine Rosicrociano e avrebbe tramandato la saggezza divina che gli era stata impartita da Dio prima della caduta ai Caldei, Egizi e ai profeti dell’Antico Testamento tramite l’iniziazione di Noè e Zoroastro. E proprio il caldeo Zanoni insieme al saggio Mejnour, è l’ultimo discendente dell’antichissimo Ordine dei RosaCroce, un adepto votato al bene che si innamora però della bellissima cantante lirica napoletana Viola Pisani. Sarà proprio per lei che rinuncerà prima ai suoi poteri divenendo vulnerabile, poi alla vita stessa, per sottrarre Viola e il figlioletto alla ghigliottina durante gli ultimi giorni del Terrore. Zanoni è uno straniero bello e dalla pelle olivastra che “sembra non avere altro al mondo all’infuori di se stesso”, è una figura enigmatica, complessa, magnetica, dotata di poteri straordinari e per questo temuto dalla gente, un alchimista, un mago, una creatura votata a Dio che sacrifica la sua immortalità per amore, ma che proprio attraverso il suo martirio dai toni spiccatamente cristiani, accede alla vera iniziazione, quella dell’aldilà: “Benvenuto, o purificato dal tuo sacrificio! Impara: questo è il morire!” cantano le entità celesti a Zanoni sul patibolo. Del suo paese natale egli conserva una amuleto regalatogli dalla madre che al termine del romanzo dona alla moglie Viola prima della morte, e la lingua misteriosa con la quale comunica con il figlioletto. Tale lingua potrebbe essere proprio la lingua primordiale che la tradizione musulmana assimila al siriano, e che la Tradizione ascrive invece alla lingua angelica parlata da Adamo nel Paradiso terrestre.

Glyndon
L’alter ego di Zanoni è l’irrequieto Robert Glyndon, presumibilmente l’anziano signore che, nella prefazione, lascia in eredità il manoscritto all’autore. E’ un artista inglese, anch’egli innamorato di Viola, ma che coltiva in sé il seme della conoscenza, seme ereditato da un discendente alchimista. Proprio la predestinazione o vocazione iniziatica tramite trasmissione ereditaria ricorda la teoria della “Catena dei Viventi” del romanziere austriaco Gustav Meyrink secondo cui l’Ordine degli “Svegliati” si trasmette lungo una linea di discendenza diretta, così come le caratteristiche spirituali si trasmettono da un avo a un discendente. “Esiste una confraternita – spiega Zanoni a Glyndon - delle cui leggi e misteri i principali ricercatori sono ancora all’oscuro. Secondo quelle leggi, tutti sono obbligati ad ammonire, aiutare, guidare, fino ai più lontani discendenti uomini che abbiano lavorato, anche se invano come il vostro antenato, nei misteri dell’Ordine. Noi siamo obbligati a consigliarli per il loro bene; anzi, se essi ce lo comandano, dobbiamo accettarli come nostri discepoli”. Come lontano discendente di un membro dei Rosa+Croce, Glyndon obbliga Zanoni ad accoglierlo come discepolo, sacrificando in tal modo all’amore di Viola, perché, “nessun neofita deve avere, alla sua iniziazione, alcun affetto o desiderio che l’incateni al mondo. Egli deve essere puro dell’amore della donna, libero dall’arte e da qualunque fama di speranza di fama terrena”. Glyndon, che all’inizio del romanzo è descritto come un giovane immaturo e vivace, audace e presuntuoso, “zimbello dell’impulso e schiavo dell’immaginazione”, rimane affascinato da Zanoni a tal punto da decidere di abbandonare la sua carriera di pittore e l’amore per Viola per il conseguimento dell’immortalità. Glyndon si fa così iniziare da Mejnour ma fallisce come neofita proprio al momento della prima prova, l’incontro con il terribile Guardiano della Soglia, altra celebre figura dell’occultismo che ritroveremo nella letteratura occultistica posteriore, in particolare nel saggio L’Iniziazione di Rudolf Steiner. Il fallimento di Glyndon è dovuto all’incontro con una giovane dalla bellezza e dal carattere selvaggi, Fillide, che riaccende i sensi del neofita trascinandolo in una frenetica tarantella e rendendo così vana la sua ascesi iniziatica.

Viola
Tutti i personaggi maschili del romanzo ruotano attorno alla bellissima e candida Viola, personificazione della sfera emozionale, una fanciulla di umili condizioni dall’anima buona ma ingenua, il tipico angelo del focolare domestico completamente votato all’amore e per questo inadeguata all’iniziazione alla quale Zanoni cerca inutilmente di condurla. Zanoni aspira infatti a rendere Viola una sua pari, assimilandone il lato femminino e istintuale nel suo virile, magico e creativo, secondo la teoria che verrà fatta propria anche da Meyrink. Nel Volto Verde, il cabalista ebreo Ismael Sephardi, illustrando la Via della Vita che conduce alla forma superiore di esistenza dei “Viventi”, ovvero degli adepti alla Dottrina del Risveglio, afferma che l’uomo da solo non è nulla e “non può raggiungere questo traguardo [oltrepassare il ‘ponte della vita’], ha bisogno di…una compagna. Solamente le forze congiunte dell’uomo e della donna rendono possibile l’impresa. Proprio qui sta il senso più profondo del matrimonio, quel senso che l’umanità ha smarrito da millenni”. Questa unione magica, condannata dal saggio Mejnour che ha superato qualsiasi legame con gli uomini ed è votato unicamente alla Scienza, ma che Zanoni spera inutilmente di realizzare con Viola, rimonta all’androgine, alla realizzazione platonico-alchemica dell’essere completo. Come ha spiegato Evola l’idea base è che “l’istinto sessuale […] è la radice della morte”, ma che non bisogna sforzarsi invano di estirparlo come fanno gli asceti rappresentati da Mejnour; essi “vogliono conquistarsi quella freddezza magica, senza la quale non si può andare al di là della condizione umana, e fuggono perciò la donna. Eppure solo la donna è colei che è in grado di recare loro aiuto”. Questa è la scoperta di Zanoni e la sua maledizione che lo renderà vulnerabile: non sfuggire la donna, ma assorbirne il principio femminile, in terra disgiunto da quello maschile; solo con questa unione occulta, si compieranno le nozze alchemiche e si compirà, come spiega Meyrink, quella “freddezza magica che spezza le leggi della terra […] dalla quale sgorga, come dal Nulla, tutto ciò che è in grado di creare il potere dello spirito”. Ma Zanoni, così come il protagonista di Razza Ventura, seppur in modo diverso, non riesce a conseguire questa unione sacra: nel primo caso l’inadeguatezza di Viola, nel secondo l’appartenenza di Zee alla popolazione sotterranea alata degli Ana rendono impossibili le Nozze Alchemiche. Ma in entrambi i casi le due donne rappresentano una sorta di eterno femminino, la chiave di esistenza a un livello e potere superiori votata però al fallimento dell’amore terreno. Zanoni si ricongiungerà pienamente all’amata solo dopo la morte, avendo compreso che la vera iniziazione è la morte, mentre il protagonista di Razza Ventura abbandona il mondo sotterraneo e viene trasportato in superficie dall’angelicata Zee che grazie allo splendore del proprio diadema allontana l’oscurità del mondo infero. In entrambi i casi vengono squarciate le tenebre: in Zanoni grazie a un sacrificio d’amore che passando attraverso la morte del miste conduce alla conquista della vera immortalità, quella ultraterrena, ben diversa dal prolungamento della vita donato dalla Pietra Filosofale, in Razza Ventura è l’amore di Zee che compie il Solve et Coagula ermetico in un finale che evoca il Faust di Goethe, con il protagonista salvato e trasportato “in alto” da una donna alata.

Lily
Secondo l’autore, Zanoni, che venne pubblicato nel 1842, fu frutto di un sogno fatto nel 1835. Lytton, infatti, aveva sempre dato molta importanza alla sfera onirica quale genesi della conoscenza umana, “Nei sogni essa [conoscenza] si libra sopra uno spazio senza termini, il primo tenue ponte tra spirito e spirito, tra questo mondo e il mondo dell’aldilà”. La creazione delle figure femminili più importanti del romanzo, Viola e Fillide sarebbero invece da ricondurre ad esperienze autobiografiche. Se Bulwer Lytton ebbe una carriera sfolgorante sia come romanziere sia come politico, la sua vita sentimentale non fu altrettanto felice. Si innamorò adolescente di una giovane, Lily, che sparì improvvisamente per riapparire tre anni dopo con una lettera dove spiegava di essere stata costretta a contrarre un matrimonio di interesse e di essere sul punto di morire. Morì infatti poco dopo e il giovane Lytton vegliò la sua tomba e dedicò all’amata una poesia “The Poet to the Dead” indirizzata a una fanciulla che si chiama Viola proprio come la protagonista di Zanoni e che ispirò tutte le eroine dei suoi successivi romanzi. La morte prematura di Lily fecero sorgere l’interesse dell’autore per l’elisir di lunga vita, tema che ritroviamo anche in A Strange Story, dove la protagonista si chiama proprio Lilian. Ma è in Zanoni che si proietta tutto il tormento dell’autore per la ricerca della vita eterna per l’amata. Cosciente di sopravvivere alla moglie, Zanoni cerca disperatamente di iniziarla al sapere Ermetico, ma inutilmente. Così quando Viola rischia la vita nel dare alla luce il figlio, il marito disperato evoca il Guardiano della Soglia, presentato come una vera e propria personificazione del Male, pur di salvarli.

Fillide
Il secondo personaggio femminile del racconto è Fillide, figlia e sorella di briganti, una creatura sensuale e selvaggia che si autodefinisce “figlia della montagna”, possessiva e vendicativa che diviene la compagna di Glyndon dopo il fallimento delle prove iniziatiche. Sarà la gelosia di Fillide a causare l’arresto di Viola a Parigi e a far precipitare gli eventi fino al sacrificio finale di Zanoni. Anche il personaggio di Fillide fu ispirato da una donna, una zingara, che Bulwer Lytton incontrò nell’estate del 1824 e che sposò secondo il rito zingaresco. L’unione durò poco perché la presenza del gentiluomo londinese non fu gradita nell’accampamento della moglie che Lytton abbandonò per far ritorno a casa dove nel 1827 sposò Rosina Doyle Wheeler, dalla quale si separò dieci anni più tardi.

Razza Ventura
Centrale nella vita e nella produzione letteraria di Lytton fu l’amicizia con il celebre mago Eliphas Levi; fu proprio l’amicizia influente del romanziere ad aprire a Levi le porte di tutti i più rinomati salotti magico-esoterici e al contempo Levi indirizzò a Bulwer Lytton i suoi discepoli parigini “più dotati” affinché gli comunicassero le ultime novità sulle sue ricerche nell’ambito dell’alchimia cabalistica. Levi insegnò a Bulwer Lytton i segreti della tradizione gnostica ed ermetica, l’obbiettivo e il segreto della GrandeOpera, mentre due suoi discepoli, i fratelli polacchi Alexandre e Costantine Branicki fecero conoscere a Lytton le pratico magico-sessuali che lo stessi Levi aveva appreso dall’occultista francese Pierre Vintras. La simbologia ermetico-alchemica di Levi si ritrova per intero nel romanzo più famoso di Bulwer Lytton, Razza Ventura, in cui l’autore presenta, sotto le mentite spoglie del racconto fantastico, una parte degli insegnamenti tramandati da Levi, in particolare il concetto di energia Vril. Secondo la Tradizione, la scienza occulta avrebbe, nell’antichità, conseguito traguardi sorprendenti, “scoprendo le proprietà e i poteri dell’akas”, energia sottile e invisibile, simile all’etere universale, “fonte di vita”, che conosciuta e controllata permetterebbe di manipolare la materia e compiere “operazioni magiche”. Infatti l’akasa sarebbe, spiega Madame Blavastky nell’Iside Svelata, “l’agente indispensabile di ogni Kriya (operazione magica) religioso o profano […] l’elettricità occulta; è anche, in un certo senso, l’alkahest degli alchimisti, o solvente universale, la stessa anima mundi come luce astrale”, energia che è stata illustrata sotto il fantastico nome di Vril da Bulwer-Lytton nel racconto Razza Ventura che ispirò le successive ricerche archeologiche del nazismo esoterico. The Coming Race condusse infatti in Germania alla fondazione di una setta segreta chiamata Società del Vril (o Loggia Luminosa dalla quale sarebbe derivata per filiazione la Società Thule) che, traendo ispirazione dal romanzo in questione e supportata da fonti teosofiche concernenti l’esistenza del mitico regno sotterraneo di Agartha e dalla teoria del “mondo cavo” di Karl Neupert, credeva nell’esistenza di una “razza ventura” sotterranea che in un futuro non troppo lontano avrebbe preso il sopravvento sulla nostra, grazie soprattutto a una progredita conoscenza tecnologica e all’utilizzo dell’energia Vril.


LE STANZE DI DZYAN,
OVVERO, LA CHIAVE DELL’EVOLUZIONE COSMICA

Di Enrica Perucchietti

«Un manoscritto arcaico una raccolta di foglie di palma rese inalterabili all’acqua, al fuoco e all’aria da un processo specifico sconosciuto – è sotto gli occhi di colei che scrive. Sulla prima pagina è raffigurato un disco bianco immacolato all’interno di uno sfondo nero e opaco. Sulla pagina seguente lo stesso disco, ma con un punto centrale». Inizia così il proemio delle Stanze di Dzyan, un antichissimo testo orientale, tanto antico quanto misterioso, di origine tibetana, scoperto e reso noto, sul finire dell’Ottocento, in Occidente, dalla celebre fondatrice della Società Teosofica, Helena Petrovna Blavatsky. Frammenti misteriosi, di un sapere antico che Madame Blavatsky traduce dal linguaggio “Senzar”, e che diverranno il nodo centrale del manifesto della Teosofia, La Dottrina Segreta, l’opera in otto volumi pubblicata dalla stessa Blavastky nel 1888.

Composizione dell’opera
Le Stanze di Dzyan si compongono di due parti: «Evoluzione cosmica» in sette stanze e «Antropogenesi» in dodici stanze, rispettivamente precedute e seguite da un capitolo di commento in cui vengono spiegati i versi. Nella prima parte viene descritta la storia dell’Universo, dalle sue origini alla formazione della materia. Nella seconda, sulla quale insisteremo, viene trattata l’origine dell’uomo e la sua evoluzione fino alla catastrofe che avrebbe distrutto la Quarta Razza e il popolo di Atlantide: «Le prime grandi acque vennero. Esse inghiottirono le sette grandi isole». È il Diluvio che sommerse e fece sprofondare Atlantide, probabilmente quello che le leggende e i Testi Sacri hanno tramandato col nome di "Diluvio Universale".

La lingua Senzar
La Blavatsky descrive il manoscritto, di cui avrebbe avuto visione diretta in un luogo segreto durante un viaggio in Tibet alla ricerca dei “Maestri Sconosciuti”, come un testo antico di millenni, redatto in lingua Senzar, la lingua sacra “dell’Intuizione e della Sapienza”, che già undici anni prima, nell’Iside Svelata, veniva chiamata “Sansar” o linguaggio del Sole. Si tratterebbe di una lingua segreta sacerdotale, la lingua misterica degli Iniziati: «C’è stato un tempo in cui il linguaggio era noto agli iniziati di ogni Paese, quando i progenitori dei Toltechi comprendevano questa lingua tanto facilmente quanto gli abitanti della perduta Atlantide, che la ereditarono a loro volta dai saggi della Terza Razza, i quali la impararono direttamente dagli Dèi della Seconda e della Prima Razza. È stato il linguaggio della Quinta Razza, la base del più tardo sanscrito. Attualmente sono pochi quelli che la conoscono nella sua completezza, essendo divenuta per le masse una lingua assolutamente morta da più di cinquemila anni. Questo linguaggio misterico delle razze preistoriche aveva la propria scrittura, un antico cifrario geroglifico ancora preservato in alcune confraternite. È una scrittura non fonetica ma puramente figurata e simbolica». Il manoscritto, costituito di foglie di palma, ha tuttavia una caratteristica particolare: sembra essere intensamente magnetizzato, «in modo che se il lettore vi appoggia una mano sulla pagina che sta leggendo vede gli episodi e riceve gli insegnamenti che vi sono descritti». Bisogna ringraziare la Provvidenza che questa lingua misteriosa pre-sanscrita fosse intelligibile a Madame Blavatsky che, come racconta il teosofo C. W. Leadbeater, ebbe modo di accedere al testo in questione in una lamasseria segreta in Tibet: «L’originale del Libro di Dzyan – spiega Leadbeater – è a Shambhallah, nelle mani dell’augusto Capo della Gerarchia Occulta, e nessuno lo ha mai veduto. Nessuno sa quanto sia antico, ma si dice che la prima parte (che consiste nelle prime sette stanze), abbia un’origine addirittura anteriore al nostro mondo e si dice pure che non sia una storia ma una serie di indicazioni: una formula per creare, piuttosto che un racconto della creazione. Una copia di esso è custodito nel museo della Gerarchia Occulta ed è questa la copia che Madame Blavastky e diversi suoi discepoli hanno visto e che essa descrive, anche con un supporto grafico, ne La Dottrina Segreta». Nell’introduzione di quest’ultima, l’autrice ha spiegato il significato del termine Dzyan come derivazione da dhyâna, contemplazione, mentre in Lotus l’aveva fatta derivare dal termine jnâna, conoscenza. Guènon in Teosofismo ha mostrato invece l’insensatezza filologica di tale derivazione, in quanto i due termini, “conoscenza” e “contemplazione” sarebbero incompatibili tra loro.

Assertori e oppositori
Sfortunatamente, del libro non è mai stata fornita alcuna fonte originale né esiste alcuna citazione anteriore alla pubblicazione della Blavatsky o esterna alla saggistica esoterica. Al di là delle interpretazioni fornite dalla fondatrice della Società Teosofica e dai suoi seguaci, la completa mancanza di riscontri del manoscritto originale, così come della misteriosa lingua pre-sanscrita in cui sarebbe stato redatto, ha gettato non pochi sospetti sulla sua reale esistenza, ma dall’altra, ha dato vita a un filone esoterico-letterario che ha posto, come vedremo, sia le basi del sapere occulto del nazismo, sia, il serbatoio “sapienziale” in cui è confluita una cultura pseudo esoterica che ha confuso i limiti della Tradizione con le divagazioni fantastiche del Teosofismo. Ma ha anche ispirato racconti gotici e più recentemente videogiochi e fumetti. È citato nei racconti horror-fantasy Il diario di Alonzo Typer e L'abitatore del buio - scritti entrambi da H. P. Lovecraft nel 1935 - come uno dei testi alla base dei miti di Chtulhu al pari del famoso Necronomicon.

Antropogenesi
La seconda parte del manoscritto narra l’evoluzione del nostro sistema planetario e in particolare lo sviluppo della vita sul nostro pianeta con la formazione e successiva distruzione di quattro Razze, fino all’avvento della Quinta, quella attuale. Si fa costante riferimento a entità superiori che, in veste di demiurghi e Maestri, hanno plasmato e guidato l’evoluzione sul nostro pianeta. Possibili riferimenti alle odierne ricerche scientifiche - antropologia, paleontologia e criptozoologia - sono frammentarie ma curiose e hanno contribuito a creare una vera e propria scienza teosofica parallela a quella ortodossa. Si possono trovare riferimenti alla teoria nebulare sull’origine del Sistema Solare e sull’origine della Terra, mentre ci si discosta completamente dalla scienza ufficiale riguardo l’origine e lo sviluppo della Razza umana. Si teorizza, ad esempio, una stirpe di malvagi Uomini Acquatici, di Giganti alti circa otto metri (i Titani della mitologia greca e i Nefilim della Bibbia), di creature mitologiche mostruose, di esseri per metà umani e per metà demoni generati dalle “Testestrette”. Ma si teorizza anche la derivazione degli uccelli non dai rettili, come vuole la paleontologia ufficiale che trova il suo caposaldo nell’Archeopterix, ma da alcuni animali acquatici («Quelli che nell’acqua avevano lunghi colli divennero progenitori degli uccelli dell’aria»); mentre le scimmie sarebbero il risultato di un’unione peccaminosa tra alcuni membri della Terza Razza con esseri ancora allo stato animale («E coloro che non avevano la Scintilla presero per essi enormi animali femmine. Produssero con esse delle razze mute […] Essi allevarono dei mostri contraffatti e coperti di peli rossi che camminavano a quattro zampe»), teoria che sarà ripresa e rielaborata all’interno del razzismo biologico da Lanz von Liebenfels in Theozoologia. Ma è la precedenza temporale della creazione dell’uomo su ogni altro mammifero sulla Terra a poter vantare la derisione generale della scienza ufficiale.

Evoluzione, Karman, reincarnazione

Il Libro di Dzyan narra due distinte “creazioni” che si riferiscono rispettivamente alla formazione da parte dei “Progenitori”, gli Elhoim o Pitri, e a quella dei gruppi umani dopo la separazione dei sessi che evoca i miti della caduta e ricorda in qualche modo il racconto Biblico e l’Adam Kadmon cabalistico: «La prima razza – spiega la Blavastky nelle note preliminari alle dodici stanze dell’Antropogenesi – che era imperfetta, è nata prima che “l’equilibrio” (la differenziazione sessuale) esistesse. Essa venne “distrutta” in quanto razza con la fusione della sua stessa progenie […] vale a dire che la (prima) razza asessuata si è reincarnata nella bisessuata seconda razza; quest’ultima negli androgini (la terza razza); e questi a loro volta nella terza razza posteriore, quella sessuata». Prima di entrare nel merito è bene ricordare che alla base del pensiero teosofico vi sono tre insegnamenti fondamentali: evoluzione, Karman, reincarnazione. Secondo la Teosofia l’intero ordine della natura manifesta un cammino progressivo verso una vita superiore dove è ravvisabile un chiaro processo evolutivo fino al punto di ammettere perfino il “Trasformismo”, ovvero l’aspetto più grossolano dell’evoluzionismo, ma esclude tuttavia, come abbiamo visto, alcuni punti della teoria darwiniana: Sette Razze Madri si succedono nel corso di un “periodo mondiale”; ogni Razza comprende sette “sotto-razze”, di cui ciascuna è divisa a sua volta in sette “branche”. La formazione dell’umanità si può attuare solo attraverso la compenetrazione di due forze: l’energia spirituale, o “Fuoco Solare”, e l’energia della materia, o “Spirito della Terra”. A ciò si unisce il pellegrinaggio obbligatorio per ogni anima attraverso un ciclo di reincarnazioni in armonia con la legge ciclica e karmica (secondo la quale le condizioni di ogni esistenza sarebbero determinate dalle azioni compiute nel corso delle esistenze precedenti), che non fa che aggiungere disordine a un sistema già caotico ed eccessivamente fantasioso di suo: «Nessuna anima divina e puramente spirituale – sentenzia la Blavastky – può avere una esistenza indipendente (cosciente) prima che la scintilla […] sia passata attraverso ogni forma elementare del mondo fenomenico di quella evoluzione e abbia acquisito individualità»

Le quattro Razze Madri
Ai vari cicli di formazione delle Razze umane sono delegate quali Costruttori varie Entità Spirituali, ognuna delle quali opera sul proprio piano di appartenenza. La Prima Razza creata è asessuata: è la Chhâyã, detta anche “Ombra Astrale” perché priva di corpo fisico denso. Gli appartenenti a questa prima umanità sono detti anche gli “Autogenerati” perché senza sesso. Sono dotati di un’anima vitale interna al corpo fisico e di una parte fisica allo stato eterico. La Seconda Razza deriva dalla Prima. Essa è generata per scissione cellulare dalla Prima, non essendo gli uomini della Prima Razza in grado di procreare. È così prodotta la Seconda Razza, androgina, ossia con i due sessi uniti in un solo individuo. Gli appartenenti alla Seconda Razza sono anche chiamati “Nati dal sudore” perché generati “da innesto ed espansione, l’asessuale uscendo dal Senza-Sesso”. Col passare del tempo e con l’adattamento all’ambiente circostante i corpi vanno sempre più densificandosi. Cominciano così a modificare la struttura eterica dei loro corpi («L’antica Ala divenne la nuova Ombra e l’Ombra dell’Ala»): il corpo eterico, forma esteriore della Seconda Razza, diviene il corpo animico della Terza Razza. La Seconda Razza, quella androgina sviluppa la Terza, “i Nati dall’Uovo”. Questa è la prima Razza formatasi anche sul piano fisico materiale. Giunto a questo stadio l’uomo acquista un corpo fisico quasi completo e da androgino passa al piano della dualità e della manifestazione con la separazione dei sessi. La Terza lascerà il posto alla Quarta che popolerà la Terra fino al Diluvio: sono gli Atlantidei. Solo con la Quarta, in grado di ricevere l’energia dello spirito e della mente, ovvero l’Io Superiore, ha inizio il Karman individuale e il cammino dell’evoluzione spirituale tramite l’applicazione della volontà e del libero arbitrio. Solo a partire dalla Terza Razza, in cui avviene la separazione dei sessi, si densificano dal livello eterico a quello fisico anche i primi animali: «Gli animali senz’ossa crebbero e mutarono; essi divennero animali con le ossa». Ciò conduce anche ad abominevoli unioni tra le sottorazze ancora sprovviste di mente e gli animali. Solo con lo sviluppo della parola, che avviene durante la Quarta Razza, l’uomo diviene consapevole, cosciente e pienamente responsabile delle proprie azioni.

Atlantide
Distrutto il continente di Mu attraverso il fuoco, patria della Terza Razza, la Quarta Razza Madre decadendo sempre di più al livello della materia, perde il contatto con le Sfere Superiori e matura un’individualità egoista e malvagia che porta alla chiusura del Terzo Occhio, perdendo l’uso delle facoltà superiori. Gli Atlantidei costituiscono la prime civiltà e aggregazioni urbane («Costruirono le prime città colossali con terre e metalli rari»), ma sono minacciati dall’Acqua. E proprio il Diluvio, quale castigo divino per una non specificata colpa, sommerge Atlantide, traendo in salvo soltanto alcuni eletti: «Tutti i santi furono salvi e gli empi distrutti». Coloro che sopravvissero alla catastrofe ebbero il ruolo di tramandare parte del proprio sapere agli uomini della Quinta Razza, la Bianca, il cui ceppo pre-esisteva in Atlantide come sottorazza Ariana. Altrove la Blavastky descriverà la fine di Atlantide come conseguenza di uno scontro tra i suoi sapienti, che usavano in modo malvagio i poteri occulti di cui erano dotati, e i saggi maghi di Shambhalah.

La Società Thule
Si è più volte parlato dell’apporto che le opere teosofiche ebbero sulla formazione della dottrina occulta del nazismo. L’influenza che la Teosofia esercitò sulla costituzione della Società Thule riguarda sia il nucleo della scienza segreta con le sue teorie cosmogeniche e antropogeniche solo in parte assimilabili alle teorie cosmologiche di Horbiger, sia le narrazioni riguardanti il regno sotterraneo di Agarthi e l’esistenza dei “Superiori Sconosciuti” o “Maestri Oscuri”, con i quali sarebbe possibile comunicare per mezzo di una padronanza di esercizi medianico-spirituali. Soprattutto l’esistenza di questa “razza” superiore, governata da Esseri Supremi, dotati di poteri psichici inimmaginabili e in grado di assumere a proprio piacere forma umana, abitanti in città-stato segrete e sotterranee, ossessionava il Fuhrer e i membri della Thule. E una certa storiografia, facente capo al Mattino dei Maghi, di Pauwels e Bergier, ha presentato Hitler non solo come un medium, ma altresì come erede, e persino vittima invasata, più o meno cosciente, dei Maestri Oscuri di Shambhallah, gli stessi che ispiravano le opere della Blavastsky. Questa descrizione quasi demoniaca di Hitler risale a un racconto di Rauschning, capo del governo di Danzica, che riferisce di incubi notturni del Fuhrer e di un episodio in particolare in cui si sarebbe svegliato terrorizzato urlando e indicando un angolo della propria stanza convinto della presenza dei Maestri Oscuri: «Hitler era in piedi nella sua camera, barcollante, guardandosi attorno con aria smarrita. “È lui! È lui! È venuto qui! Gemeva […] “Lì! Lì! Nell’angolo! È lì!”». Ma non solo Atlantide, Agarthi, Giganti, Maestri Oscuri. La Società Thule ereditò anche i concetti di Karman e reincarnazione, tanto criticati, invece, dai Maestri della Tradizione, Evola e Guènon.

Teoria extraterrestre
Ma proprio durante gli anni del nascente nazionalsocialismo si diffuse l’interpretazione extraterrestre del racconto contenuto nelle Stanze di Dzyan, accreditata ancora oggi, sulla scia di ricercatori alternativi quali Kolosimo, Von Daniken e Sitchin. L’origine dell’umanità avrebbe avuto origine da extraterrestri, definiti appunto nelle Stanze “Costruttori” e “Formatori” («Allora i Costruttori, indossate le loro prime Vestimenta, discendono sulla Terra radiosa e regnano sugli Uomini che sono loro stessi» e ancora, «I Dhyãni vennero e guardarono… i Dhyãni vennero dal lucente Padre-Madre, dalle Bianche Regioni [dalla via Lattea?], dalle Dimore dei Mortali Immortali»), i quali avrebbero compiuto diversi esperimenti di “razze prova” fino ad ottenere la Quinta, quella attuale, creata in seguito al Diluvio che distrusse la Quarta Razza, ovvero gli abitanti di Atlantide, rei di aver usato in modo distorto la tecnologia che avevano sviluppato («La Quinta [Razza] prodotta dalla santa schiatta rimase; era governata dai primi Re Divini»). I Dhyãni nel contesto originale, sarebbero esseri di luce, Dèi o spiriti planetari, e qualcuno ha ravvisato nelle “Bianche Regioni”, nientemeno che la Via Lattea. Secondo questa teoria esseri extraterrestri sarebbero discesi da ignote zone della galassia per plasmare a propria somiglianza l’uomo e da questo, una volta creato, sarebbero stati adorati come Dèi e definiti Mortali-Immortali. Non si tratterebbe dunque di un racconto allegorico, come invece avverte la stessa autrice nel commento introduttivo («È quasi certo che l’apparente carattere soprannaturale di questi insegnamenti, sebbene allegorici, sia tanto diametralmente opposto alle desuete affermazioni della Bibbia quanto alle più recenti ipotesi scientifiche, da evocare un vivo rifiuto») ma della cronistoria di interventi alieni nella costituzione genetica dell’uomo e del suo successivo indottrinamento («I Figli della Sapienza, I Figli della Notte, pronti per la rinascita discesero» e ancora «…I Serpenti che ridiscesero, che fecero pace con la Quinta [Razza], che l’ammaestrarono e l’istruirono»), che fu poi continuato, dopo il Diluvio, dagli Atlantidei sopravvissuti alla catastrofe. E proprio il termine “ridiscesero” indicherebbe il ritorno dalle regioni celesti di esseri non appartenenti alla Terra, forse quegli stessi Costruttori che guidarono la formazione dei primi esseri viventi e che istruirono i capostipiti della nuova civiltà, che si sarebbe evoluta nell’attuale società terrestre.

Linguaggio occulto
Se ci si riferisce invece all’ipotesi dell'esoterista inglese Nicholas Goodrick-Clarke che ha suggerito che la fonte di ispirazione delle Stanze andrebbe ricercata nel Taoismo cinese e nella Cabala ebraica, tutto il confuso e pasticciato linguaggio della fantastoria contenuta nelle Stanze, che alterna concetti orientali affogati in un marasma di imprecisioni, errori, contraddizioni ed elaborazioni caotiche quanto fantastiche, andrebbe ricondotto nell’ambito dell’esoterismo classico, e non dell’ufologia. Le narrazioni si riferirebbero a una narrazione allegorica o comunque esoterica delle origini e dell’evoluzioni dell’Essere Umano, e le gerarchie spirituali ivi descritte non dovrebbero essere confuse meramente con alieni in carne ed ossa, così come l’evoluzione del nostro sistema planetario e della vita sul nostro pianeta fino all’avvento dell’Uomo, non dovrebbe essere confusa con esperimenti genetici esogeni ante-litteram. In questo quadro termini quali Mortali-Immortali, Serpenti, demiurghi, etc. riferentesi a entità spirituali misteriose si riappropriano del significato originale ermetico che hanno nelle tradizioni esoteriche orientali. Nulla di alieno, dunque. Come ha dimostrato Guènon nel Teosofismo, le Stanze di Dzyan, incorporate nella Dottrina Segreta contengono inoltre «molti passi che sono chiaramente “interpolati” o addirittura interamente inventati, ed altri che sono stati per lo meno del tutto “arrangiati” per accordarli con le idee teosofiste; in quanto alle parti autentiche, queste sono semplicemente tratte da una traduzione dei frammenti del Kandjur e del Tandjur, pubblicata nel 1836, nel ventesimo volume dell’Asiatic Researches di Calcutta, da Alexandre Csoma de Körös». Il mistero del manoscritto rimane sepolto in un luogo segreto, custodito forse dai Maestri in un monastero tibetano o nelle memorie Akashiche dell’universo.

IL VAGABONDO DELLE STELLE

Di Enrica Perucchietti

«Io affermo […] che la materia altro non è che illusione. Comte chiama il mondo, che è l’equivalene della materia, il grande feticcio, e io sono d’accordo con lui. È la vita a costituire l’unica realtà e il vero mistero.[…] La vita persiste, passando come un filo di fuoco attraverso tutte le forme prese dalla materia. Lo so. Io sono la vita». Bergson ha ragione, sostiene Darrell Standing, il protagonista del romanzo di Jack London, Il Vagabondo delle Stelle: «la vita non si può descrivere in termini puramente razionali». Basterebbero poche citazioni per pensare a un trattato di filosofia, ma Il Vagabondo delle Stelle, non è questo. È stato definito da alcuni un romanzo di “evasione” perché il protagonista, un ex professore della Facoltà di Agricoltura del Nebraska, confinato nel braccio della morte nella prigione di San Quentin, attraverso tecniche sciamaniche riesce a evadere dal proprio corpo, sottoposto alla tortura della camicia di forza, e a compiere viaggi astrali, rivivendo le esistenze precedenti. Ma il capolavoro di Jack London non è solo un perfetto esempio di realismo fantastico, è un compendio di filosofia, un pampleth contro la pena di morte, una denuncia sociale, una genealogia fantastica, una fantasmagoria dell’immortalità, una super storia ideale che ripercorre “l’eterno ritorno periodico” dello Spirito. La disperazione e la sofferenza dell’isolamento carcerario è solo l’incipit per una storia sciamanica, un racconto di liberazione e illuminazione attraverso il ricordo dell’eterno viaggiare di forma in forma, di vita in vita dello spirito. In una cella d’isolamento un uomo sfiancato dalle torture, invece di soccombere al sistema carcerario, riesce ad abbattere le barriere dello spazio e del tempo, ad acquisisre la memoria delle esistenze precedenti e a liberarsi non solo dalle sofferenze fisiche, ma dal corpo stesso e dall’esistenza individuale, dall’io “Darrell Standing”, per riappropriarsi di quella catena eterna di io che compongono l’Io Vivente, lo Spirito. La cella di San Quentin diviene solo una metafora di quella prigione che come insegnavano Pitagora e Platone è il corpo. Così la solitudine e la sofferenza da mezzi di tortura si trasformano in un mezzo per l’autoiniziazione del protagonista.

Chi è Darrell Standing
Il Vagabondo delle Stelle è suddiviso idealmente in due parti, la narrazione carceraria e il racconto del vagabondaggio del protagonista in tempi e luoghi remoti, lungo il ciclo di reincarnazioni. Ma le due parti della narrazione di intersecano e alternano fino alla fine dell’opera, costituendo un vero e proprio testamento morale che il protagonista, condannato all’impiccagione, scrive per trasmettere ciò che ha appreso e vissuto. Darrell Standing, sta scontando l’ergastolo per l’omicidio di un collega in un impeto d’ira (la “collera rossa”, emozione violenta che contraddistingue il suo Io in tutte le forme delle sue vite precedenti), nella famigerata prigione della California e durante la detenzione subisce ogni sorta di violenza, fino a quando, per aver reagito colpendo involontariamente un secondino al naso, viene condannato all’impiccagione. Rinchiuso nel braccio degli assassini, nell’imminenza dell’esecuzione, il condannato Standing inizia a raccontare la sua storia.

Contro la pena di morte
Il verismo estremo, la prosa selvaggia di London deunciano le angherie del sistema carcerario e l’insensatezza della pena di morte: «“L’uso peggiore che si possa fare di un uomo è quello di impiccarlo”. No, non ho alcun rispetto per la pena di morte. Si tratta di un’azione sporca, che non degrada solo i cani da forca pagati per compierla ma anche la società che la tollera, la sostiene col voto e paga le tasse specifiche per farla mettere in atto. La pena di morte è un atto stupido, idiota, orribilmente privo di scientificità», sentenzia Standing in attesa dell’esecuzione. Ma là dove il romanzo sembra seguire le orme di quel filone letterario ambientato nel carcere, si insinua la seconda trama, quella centrale, dove la speculazione metafisica si sposa al misticismo e al lirismo fantastico. Il crescendo dei supplizi fisici provati dal protagonista sfociano nell’uso protratto della camicia di forza. In questa situazione estrema, Ed Morrell, un compagno d’isolamento con il quale Standing comunica a distanza attraverso un linguaggio cifrato con le nocche delle dita, gli insegna la tecnica della “piccola morte” per non soccombere al dolore insopportabile della tortura. Durante le ore di veglia nella camicia di forza Standing apprende il controllo del corpo da parte della mente, che definisce la “sofferenza passiva”: «E fu proprio il controllo dello spirito sulla carne, così appreso, a consentirmi di mettere in pratica il segreto che Ed Morrell mi rivelò». Appreso il controllo del corpo da parte della volontà, il protagonista viene iniziato a una forma di induzione autoipnotica, una trance catalettica simile a qualle dei maestri yogin che, a partire dalla sospensione delle funzioni vitali e della coscienza, fa morire il corpo per liberare lo Spirito: «La cosa che devi pensare e in cui devi credere è che il tuo corpo è una cosa che non conta, non vale niente. Il capo sei tu e non hai bisogno di un corpo. Col pensiero e con la fiducia che questo sia vero puoi dimostrarlo usando la tua volontà. Fai morire il tuo corpo», lo incoraggia Morrell. «Comincia dalle dita del piede, un dito per volta. Lo fai morire, tu vuoi che muoia, e se ci credi fermamente morirà. Il difficile è tutto qui, dare inizio a questa morte. Se riesci a far morire il primo dito, il resto è facile, perché ora tu non hai più bisogno di credrci, ora tu sai. A questo punto impieghi tutta la tua volontà per far morire il resto del corpo» spiega Morrell che ha applicato questo metodo già tre volte. «Quando è morto l’intero corpo e tu sei ancora lì, non devi fare altro che uscira dalla tua pelle, abbandonano il corpo. Lasciato il corpo, lasci anche la cella […] Puoi guardarlo, il tuo corpo, standoci fuori». L’unica raccomandazione che viene fatta al protagonista è di “non superare il limite”, quello che il channeling contemporaneo definisce come il divieto di tagliare il cordone astrale che lega lo spirito al corpo, pena l’impossibilità di rientrare nel proprio corpo. Attraverso un meccanismo di autoipnosi Standing aveva già tentato in precedenza di risalire ai suoi “io” precedenti, tornando indientro nel tempo per rivivere le esistenze passate di cui, fin da bambino, servava alcune reminescenze. Solo in parte ci era riuscito, sperimentando un flusso di visioni che si sovrapponevano senza coerenza e continuità temporale. Il metodo insegnatogli da Morrell era l’opposto: «Col mio sistema la coscienza era la prima ad andare via, col suo durava fino all’ultimo; poi, quando il corpo se n’era andato, la coscienza passava a stati tanto sublimati da uscire dal corpo e dalla prigione di San Quentin. Ora poteva errare per l’universo, senza venir meno». In seguito alla spiegazione del compagno, il direttore del carcere lo sottopone, per la prima volta di un lungo ciclo, a dieci giorni ininterrotti di camicia di forza, tortura che spinge il protagonista a mettere in atto lo stratagemma appreso. A quel punto la fede nel dominio della mente sul corpo “fece il miracolo”. In uno stato di esaltazione mentale per l’esperimento riesce a interrompere il flusso della circolazione sanguigna, a immobilizzare il corpo, rallentare i battiti del cuore, come come le tecniche dello yoga, fino alla proiezione dello spirito al di fuori della prigione corporale: «Fu allora che, fra i bagliori di luce, superando di un balzo il tetto della prigione e il cielo della California, fui libero in mezzo alle stelle. Dico bene, in mezzo alle stelle». Il primo effetto della proiezione astrale è un’escursione celeste. L’iniziato avanza nello “spazio interstellare” con in mano una lunga bacchetta di vetro con cui deve toccare tutte le stelle che incontra sul suo cammino: «Ma poi, con la punta della mia bacchetta mancai una stella e in quel medesimo istante mi resi conto di aver commesso un orribile crimine […] L’intero sistema solare si fece corrusco, vacillò, poi cadde in fiamme […] e fui di nuovo l’ergastolano Darrell Standing, confinato nella sua cella di rigore, legato in una camicia di forza». Il richiamo dell’amico Ed dalla lontana cella lo fa precipitare dal suo errare astrale di nuovo nel corpo. Appresa ormai la tecnica della piccola morte, Standing inizia ad applicarla con regolarità rivivendo le sue vite precedenti e sopravvivendo, d’altro canto, alla sofferenza fisica della camicia di forza.

Il Vagabondo London
Nel personaggio di Darrell Standing, come in tutte le creazioni di London, troviamo tracce della singolare e avventurosa figura del romanziere, la sua vita tormentata, a partire dalla sua giovanile esperienza in carcere in quanto vagabondo senza fissa dimora. L’esperienza risale alla sua partecipazione alle manifestazioni popolari di protesta scoppiate negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso. Il romanzo, scritto nel 1915 si ambienta nel 1913. Al momento della stesura London si era interessato delle condizioni carcerarie e intendeva perorare la causa di un amico, tale Ed Morrell, in prigione da cinque anni e sottoposto a un regime durissimo. L’amico si chiamava proprio come il personaggio del romanzo e insieme a Jake Oppenheimer, un altro ergastolano confinato in cella d’isolamento, è una persona realmente esistita. L’opera ebbe infatti il merito di riuscire a far ridurre la pena di Morrell. Il terzo degli incorreggibili, i Tre Moschettieri di San Quentin, è ovviamente l’alter ego di London, il protagonista, Darrell Standing.

Filosofia e Teosofia
Divoratore instancabile di libri, London cita a più riprese l’amato Nietzsche, attraverso una personalissima rivisitazione romanzata della teoria dell’Eterno Ritorno che riecheggia per tutta l’opera. Ma troviamo anche rinvii a Pascal, Comte, al misticismo orientale ma soprattutto al filosofo francese e premio Nobel Henri Bergson, con la sua metafisica evolutiva né deterministica né puramente finalistica. Anche per London l’evoluzione, teorema che sottosta al ciclo delle reincarnazioni, è da intendersi come slancio vitale, azione che di continuo si crea e si arricchisce. Unico rischio in questa metafisica azzardata infarcita di reminescenze teosofiche è un appannaggio della personalità, uno scivolare verso le fantastiche peregrinazioni del subconscio che proprio l’elan vital del teosofo Bergson richiamano. Nella fantasmagoria di London si insinua infatti la direzione di un “progresso” universale obbligatorio di un’evoluzione fisica, psichica e spirituale, tipico della Società Teosofica. Così ritorna, anche se appena accennata, l’idea di una provvidenza e di una legge morale, concetti esclusivamente occidentali, che il Teosofismo accompagna alla teoria della reincarnazione. Usando un’immagine evoliana, rappresenterei lo Spirito descritto da London come un filo di seta che attraversa e unisce una serie indefinita di perle rappresentanti le singole esistenze. L’Io con la corrente della sua vita segue il letto che esso stesso si è scavato come un fiume anche attraverso le esistenze precedenti che hanno plasmato e indirizzato la personalità dell’Io individuale incarnato in un nuovo corpo. L’io individuale di Darrell Standing ha ereditato una serie di inclinazioni dalle esistenze precedenti vissute dall’Io sovraindividuale. In particolare l’Io Vivente che si manifesta nell’individuo-Standing soffre di una peculiarità: un accesso di collera “primordiale” che porta il soggetto ad accessi d’ira, scatti di violenza e atti vendicativi in tutte le esistenze.

Evoluzione e reincarnazione
Ora, vi sono principalmente due modi per spiegare questa eredità spirituale. La prima, quella Tradizionale, risalente al Buddhismo e ripresa dal romanziere austriaco Gustav Meyrink, si può chiarire come segue: è l’istinto profondo e animale del vivere, la brama di vita, (l’elan vital di Bergson), quasi una realtà subpersonale e collettiva, che crea una nuova nascita, dando origine a una nuova coscienza, un io mortale. Secondo il Buddhismo, infatti, l’uomo che non ha raggiunto il risveglio, il nirvana, con i suoi pensieri, azioni, parole, ha tuttavia generato un altro essere, un “demone” chiamato antarabhâva, a cui trasmette, attraverso la sua brama di vivere, le sue tendenze fondamentali. Questo nuovo essere, quando sopravvive alla morte, si ricongiunge a un corpo, (per Meyrink rimane legato alla famiglia della persona che lo ha generato, in una continuità di coscienza individuale che segue una specifica linea di sangue), dando vita a una nuova coscienza umana che non ha nessuna rapporto di continuità personale con quella del morto per quanto debba la propria origine ad esso. E poi vi è invece la continuità di coscienza individuale del Teosofismo e di tutte quelle correnti che credono nella reincarnazione come trasmissione della coscienza sovraindividuale di un Io unico, personale e immortale, al di là delle esistenze. Qui ritorna l’immagine del filo di perle. Ciò che sopravvive alla morte è lo Spirito, l’Io Vivente (il filo della collana) che si trasmette, in quanto immortale, di corpo in corpo, secondo una legge karmica, mantenendo una coscienza sopita delle esistenze precedenti (le singole perle). Ma come, ricorda London, solo lo Spirito mantiene memoria delle vite passate, la materia non ricorda. Per questo, in senso platonico, a ogni nuova incarnazione l’Io, intrappolato nella materia, non serba il ricordo delle esistenze passate. London non approfondisce questo punto, limitandosi a una visione elementare della reincarnazione in senso evoluzionista, anche se i continui riferimenti a Bergson farebbero invece pensare che ciò che si trasmette sia l’istinto profondo e animale del vivere, quasi un’entità subpersonale e collettiva in senso buddhistico, l’elan vital appunto. Per London, però, vi è anche una continuità personale che l’Io Vivente e immortale, in una condizione di distacco dal corpo, può conoscere, ricordare. La tecnica della “piccola morte” permette proprio all’Io di ricostruire l’intero percorso dello Spirito attraverso il ciclo delle vite precedenti. Per questo si parla di Eterno Ritorno, perché, a differenza di quanto sostenevano i Maestri della Tradizione, come Evola e Guènon, l’anima è condannata a un eterno reincarnarsi sulla terra. «In terra non torna se non ciò che appartiene alla terra» – insegnava Evola – «L’ “anima” non viene da altri corpi, ma da altri mondi, cioè da condizioni di esistenza, e non va in altri corpi, ma, se scampa agli “inferni” [alla “distruzione”] conformandosi al suo fine sovrannaturale, va in altri di questi “mondi”. Il ripetuto passaggio dell’anima sotto la condizione di un corpo umano rappresenta un caso assolutamente eccezionale».

L’elan vital
L’opera minore di Jack London si differenzia sostanzialmente dal ben più celebre romanzo Martin Eden, il cui protagonista omonimo esprime solo in apparenza un simile sentimento di solitudine, disfatta e amarezza testimoniato dall’anti-eroe del Vagabondo delle Stelle, nonostante il destino sia stato con Martin Eden ben più generoso che con l’ergastolano Standing, donandogli la fama e la ricchezza tanto agognate. Ma nel momento sbagliato. Solo, senza l’amore della fidanzata Ruth che l’ha abbandonato, vincendo la disperata volontà di vivere, Martin si suicida gettandosi nella acque profonde alla volta dei Mari del Sud. L’ergastolano protagonista del Vagabondo delle Stelle, invece, esprime tutto il suo slancio vitale, quella brama di vita (che nel Buddhismo, come abbiamo visto, si trasmette di essere in essere, generando altri io mortali) grazie alla consapevolezza dell’inesistenza della morte, dell’inconsistenza della materia, dell’eterno fluire della vita di forma in forma, distaccandosi dall’esistenza brutale quotidiana che lo vede confinato in prigione e impedendogli di cadere nella disperazione nichilista di Martin Eden. L’amarezza e il disincanto della prigionia sfumano nel cammino iniziatico del protagonista che si emancipa dal prosaico destino terreno in attesa di rifluire nell’eterno ritorno della metempicosi. Nulla, neppure la paura per la morte imminente, può scalfire la serenità ottenuta dalla illuminazione della moksa, della liberazione, perché Standing vive non come condanna ma come rassicurante evasione dalle pene terrene l’eterno migrare dello Spirito di corpo in corpo: «Non posso far altro che ripeterlo: la morte non esiste, la vita è spirito, e lo spirito non può morire. Solo la carne muore e transita, sempre rinnovandosi per il fermento chimico che la informa, sempre duttile, sempre cristallizzata, per fondersi nel flusso e poi cristallizzarsi in forme nuove e diverse, a loro volta effimere, destinate a fondersi ancora nel flusso. Solo lo spirito, nella sua ascesa verso la luce, resiste e continua a crescere su se stesso in virtù di successive e infinte incarnazioni. Che cosa sarò quando tornerò a vivere? Chissà. Chissà…».
 
Il Rinascimento e la riscoperta del Corpus Hermeticum
Il filosofo italiano Marsilio Ficino tradusse su commissione di Cosimo de’ Medici i primi 14 trattati del Corpus inaugurando la rinascita dell’interesse per l’ermetismo, le arti occulte, l’alchimia.

Di Enrica Perucchietti

La centralità dell’ermetismo nell’esperienza rinascimentale è testimoniata dall’importanza di un avvenimento che ebbe come protagonista il filosofo fiorentino Marsilio Ficino: nel 1460 Cosimo de’ Medici, acquistato il Corpus Hermeticum, e desideroso di conoscere la “rivelazione” mistico-teologica in esso contenuta, affidò la traduzione dal greco in latino del manoscritto al Ficino, chiedendogli di iniziare immediatamente. Marsilio abbandonò pertanto la traduzione dei dialoghi platonici, per dedicarsi al Corpus; lo tradusse nel 1463, appena un mese prima della morte di Cosimo. Solo dopo averne terminata la traduzione, Ficino fece ritorno ai testi platonici. Quest’evento fondamentale tradiva il ruolo centrale che l’alchimia, l’ermetismo, la magia e l’interesse per la cultura egiziana avrebbero rivestito nella filosofia italiana umanistica e rinascimentale. Come ha sostenuto il più famoso storico delle religioni, Mircea Eliade, la chiave di volta della cultura rinascimentale può essere rinvenuta nell’ampliamento del panorama filosofico in direzione dell’ermetismo, dell’occultismo, dello studio della cabala, della magia e dell’alchimia: opponendosi alla teologia medievale, gli umanisti aspiravano a dar corpo a una nuova religiosità “universalistica, trans-storica, mitica”. Fin dall’inizio di quest’epoca si diffuse un bisogno nostalgico di renovatio, una tensione universalistica, un’ardente ricerca di verità, un anelito mistico verso una rivelazione primordiale che si credeva dimenticata. Marsilio Ficino si inserisce in questo vivace e florido contesto filosofico; egli trovò infatti nei trattati ermetici una conferma della teoria neoplatonica di derivazione ed emanazione dell’intera realtà dall’Uno, che considerò come garanzia e punto di partenza per l’efficacia della sua magia naturalis.

Le radici esoteriche del Rinascimento
Nel vasto universo culturale del Rinascimento si deve rinvenire quella “rivelazione primaria, immemoriale e assoluta” che si ritroverà nei classici dell’occultismo di fine Ottocento e inizio Novecento. Il mito secolare di una rivelazione perduta, dell’esistenza di una philosophia perennis dimenticata o custodita dal sapere iniziatico e tramandata oralmente, oppure nascosta sotto le vestigia segrete dei manoscritti ermetici, ridesta i progetti innovatori dei pensatori rinascimentali, attraverso le creazioni e le innovazioni degli ambienti magico-esoterici. La volontà di uscire dai confini provinciali della cultura, di svecchiare l’orizzonte filosofico per recuperare un perduto senso della totalità, per spaziare liberamente in direzioni diverse, alla ricerca di verità magiche e archetipi mitici, conduce alla rivalutazione della sapienza alchemica, all’approfondimento di tematiche ermetiche che influenzeranno l’occultismo dei secoli successivi, ma, soprattutto, rende trionfante l’immagine dell’uomo come libero artefice del proprio destino, uomo che, conciliatosi con il cosmo, ne diventa, attraverso le conoscenze magico.scientifiche, signore e padrone. Ma non solo. Nel Rinascimento troviamo anche un titanismo luciferino, precursore di opere letterarie del Romanticismo, la ricerca inesausta di un modello dell’uomo universale, l’attenzione degli intellettuali sul ritrovamento e lo studio di fonti che si credevano dimenticate e abbandonate, infine, l’ampliamento dell’orizzonte culturale verso l’Egitto e l’Oriente. L’idea di renovatio corrisponde alla volontà di recuperare un senso perduto della totalità, di spaziare liberamente in direzioni di fonti diverse alla ricerca di un nuovo senso del sacro. Il recupero del modello di uomo universale trova la sua massima espressione in Leonardo da Vinci, emblema di un’epoca che tenta di superare ogni confine culturale ma che rimane legata ad antichi archetipi alchemici, quali il panpsichismo universale di Campanella o le corrispondenze ermetiche tra l’uomo-microcosmo e il macrocosmo divino. La rinascita dell’alchimia si rispecchia anche nella conciliazione tra l’uomo concreto e la natura, nella rivalutazione del molteplice (la “sacra totalità”), nell’esaltazione e glorificazione del corpo che era stato svilito e umiliato dalla teologia medievale. Questa pacificazione tra l’uomo e la natura, e il conseguente studio delle corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo, conducono al recupero e alla teorizzazione di pratiche magico-alchemiche, inserite in una filosofia del progresso, a cavallo tra mistica e scienza. Da un lato assistiamo alla ricerca di fonti antiche, tradizionali, allo studio della cabala, dell’astrologia, della mistica, all’ossessivo tentativo di conciliare dottrine filosofiche differenti per rintracciare quel sapere tradizionale, unico, primordiale e comune alle diverse culture, riprova dell’unicità e unitarietà della verità e del pensiero umano; dall’altro, l’antropocentrismo magico presiede alla nascita del sapere scientifico, del metodo empirico, dell’analisi medica, della meccanica.

Il Corpus Hermeticum
Quello che noi oggi chiamiamo il Corpus Hermeticum è un insieme di 17 brevi trattati pervenutici in greco, cui si deve aggiungere l’Asclepius in versione latina, che, tramandatoci insieme alle opere dello scrittore latino Apuleio di Madaura, l’autore del famoso Asino d’oro, è stato attribuito erroneamente a lui, infine i Frammenti di Stobeo. La raccolta medicea, che fu scoperta dal monaco Leonardo di Pistoia, comprendeva i primi 14 dei 17 trattati del Corpus. L’edizione tradotta in latino da Marsilio con il nome di Pimander fu pubblicata nel 1471. Poimandres era in realtà il titolo del primo trattato che descrive la creazione del mondo in termini talmente simili a quelli di Genesi che Ficino arrivò a ipotizzare nella sua Theologia platonica che Ermete fosse in realtà lo stesso Mosè. Dopo aver paragonato la descrizione della creazione contenuta nel Timeo platonico, in Genesi e nel Poimandres, Ficino nota come “Mercurio Trismegisto descrive con maggior chiarezza questo momento originario della creazione del mondo. Né ci dobbiamo meravigliare se costui sapesse tanto, se Mercurio non era altri che lo stesso Mosè, come dimostra, con molte congetture, lo storico Artapano”. Trismegisto sarebbe stato una fonte migliore di Mosè in quanto sapeva, molto prima dell’Incarnazione, che il Logos, ovvero la Parola creatrice, era il Figlio di Dio. Come aveva già mostrato Lattanzio, era possibile equiparare Ermete non solo a Mosè, ma anche a Giovanni Evangelista. Questi trattati ermetici erano stati composti nell’ambito della cultura ellenistica greco-romana a partire dal ii sec. d. C. ma si credevano opera antichissima di Ermete. L’equivoco si risolse nel 1614, quando l’erudito e filologo calvinista Isaac Casaubon, sottoponendo a critica testuale il Corpus Hermeticum, dimostrò come la data di redazione dei trattati non potesse che risalire ai primi secoli dopo Cristo, sconfessando così la leggenda che lo voleva opera dell’antichissima sapienza egiziana.

La via di Ermete
L’intera opera filosofica di Marsilio Ficino ebbe come scopo la conciliazione tra neoplatonismo, pitagorismo, gnosi e cristianesimo, che egli considerava come le più sapienti e veritiere dottrine dell’antichità. La riscoperta del Corpus si inserisce perfettamente in questo suo progetto di conciliazione. La filosofia ermetica tramanda una sapienza gnostica, né puramente teologica né puramente teoretica, che sa conciliare l’aspetto metafisico, gnoseologico e ontologico a quello “pratico”. La via indicata da Ermete è rivolta al sacro, a colui che intende realizzare se stesso attraverso la comprensione della rivelazione, in modo da rivolgersi attivamente alla reintegrazione nel divino. L’uomo è un microcosmo e racchiude in sé non solo i semi della creazione divina, ma anche i segni dell’Intelletto Supremo che ha dato origine al tutto. Ne consegue pertanto una continuità, e non una frattura, tra l’uomo, il cosmo e il divino. Ma per comprendere e ricongiungersi al divino, per attuare la compenetrazione dell’umano nel divino, tra coscienza ed essere, tra sapere e cosmo, l’uomo deve intraprendere un cammino iniziatico di “elevazione”: “Se non ti rendi uguale a Dio, non potrai comprenderlo; poiché il simile infatti è comprensibile per il simile. Accresci te stesso fino a raggiungere una grandezza incommensurabile; liberati con un balzo da ogni corpo, va al di là di ogni tempo […] Dopo esserti posto in questa condizione in cui niente ti è impossibile, pensati immortale e capace di ogni cosa, di ogni arte, di ogni scienza, di ogni comportamento vivente. Sali più in alto di tutte le altezze e scendi più in basso di qualunque profondità […] pensa di essere contemporaneamente dappertutto […] pensa di non essere ancora nato, di essere nel ventre materno, di essere giovane, vecchio, morto e oltre la morte. Pensa tutte queste cose contemporaneamente […] e allora potrai concepire Dio”.

L’interpretazione evemeristica
La grande riscoperta del Corpus si inserisce in questa logica di conciliazione tra i sistemi di filosofia sacra: Ermete Trismegisto era considerato dai contemporanei di Ficino come una persona realmente vissuta, un saggio e un profeta al pari di Mosè, detentore di una sapienza divina, autore di opere compatibili con il sapere cristiano. L’interpretazione allegorica della mitologia risalente all’esegesi omerica del iv sec. a. C. assunse presto le posizioni dell’evemerismo, dottrina che interpretava le divinità come esseri umani realmente esistiti che per le loro imprese eccezionali erano stati divinizzati dopo la morte. L’evemerismo, sviluppatosi a partire dal iii sec. a. C. portò a ritenere che anche Ermete fosse un personaggio storico divinizzato e, sotto tale influenza, venne presto identificato con il Thoth egiziano, arrivando a una fusione di divinità appartenenti ad ambiti culturali differenti: Hermes, Mercurio, Thoth. L’attestazione della sua esistenza era sostenuta anche dalla testimonianza autorevole dei Padri della Chiesa, Lattanzio, Origene, Agostino, Tommaso, per i quali era un antenato di Platone e Pitagora. I trattati ermetici, per l’affinità che mostravano con la dottrina cristiana, vennero considerati dai primi autori cristiani, come la testimonianza di un’originaria rivelazione divina, le cui tracce erano rinvenibili in tutte le filosofie e religioni antiche, di cui la rivelazione cristiana rappresentava il perfezionamento e il culmine. Secondo Lattanzio Ermete “benché fosse solo un uomo, era tuttavia di grande antichità e perfettamente dotato di ogni sorta di sapere […] egli scrisse libri in gran numero, riguardanti la conoscenza delle cose divine”. Così per Sant’Agostino Ermete era il pronipote di un contemporaneo di Mosè. Le genealogie su Ermete erano varie e differenti, chi lo voleva un antenato di Pitagora, come Apollonio, chi il padre di Iside, come Plutarco, chi ancora il fondatore di una città mitica, secondo la testimonianza del Picatrix, testo arabo del x o xii secolo. Cicerone, invece, parla di ben cinque Mercurii che si sarebbero alternati nel corso della storia egizia, mentre per gli esponenti di una letteratura araba sviluppatasi intorno al v-vi sec., e per gli interpreti della Tradizione, il primo Ermete sarebbe vissuto prima del diluvio e avrebbe costruito le piramidi per conservare i segreti delle scienze ermetiche; il secondo sarebbe vissuto a Babilonia dopo il diluvio e avrebbe iniziato Pitagora al sapere esoterico; il terzo, infine, sarebbe stato il grande maestro di alchimia. Dalla letteratura medievale al Rinascimento, la figura di Ermete fu associata variamente al Cristo come pastore di anime o psicopompo, oppure al diavolo. Il Rinascimento vide il recupero di questa tradizione non solo letteraria ma anche iconografica e pittorica, si ricordi la Primavera del Botticelli, che evoca Ermete come guida delle Grazie. Quest’epoca vide il ripresentarsi di Ermete al centro della scena culturale impregnata di esoterismo e neoplatonismo. Questa divinità entrò talmente in profondità nell’immaginario culturale dell’epoca da divenire un tema ricorrente. In bilico tra mito letterario, religioso e teurgico, furono talmente tante e diverse le sue interpretazioni, da divenire una delle più importanti figure simboliche nella storia della filosofia.

Marsilio Ficino e la magia naturale

di Enrica Perucchietti

La centralità dell’alchimia nell’esperienza rinascimentale è testimoniata dall’importanza di un avvenimento che ebbe come protagonista il filosofo fiorentino Marsilio Ficino: nel 1460 Cosimo de’ Medici, acquistato il Corpus Hermeticum, e desideroso di conoscere la “rivelazione” in esso contenuta, affidò la traduzione in latino del manoscritto al Ficino, chiedendogli di iniziare immediatamente. Marsilio abbandonò pertanto la traduzione dei dialoghi platonici, per dedicarsi al Corpo Ermetico; lo tradusse nel 1463, appena un mese prima della morte di Cosimo. Solo dopo averne terminata la traduzione, Ficino fece ritorno ai testi platonici. Quest’evento fondamentale tradiva il ruolo centrale che l’alchimia, l’ermetismo e l’interesse per la cultura egiziana avevano rivestito nella filosofia italiana umanistica e rinascimentale. Come ha sostenuto il più famoso storico delle religioni, Mircea Eliade, nella sua tesi di laurea in Filosofia, la chiave di volta della cultura rinascimentale può essere rinvenuta nell’ampliamento del panorama filosofico in direzione dell’ermetismo, dell’occultismo, dello studio della cabala, della magia e dell’alchimia; opponendosi alla teologia medievale, gli umanisti aspiravano a una nuova religiosità “universalistica, trans-storica, mitica”, ovvero, fin dall’inizio di quest’epoca si diffuse un bisogno nostalgico di renovatio, una tensione universalistica, un’ardente ricerca di verità, anelito mistico a una rivelazione primordiale che si credeva dimenticata. Marsilio Ficino si inserisce in questo vivace e florido contesto filosofico contraddistinto dall’ideale di renovatio, idea espressa attraverso i temi di libertà, corrispondenze umano-cosmiche e creatività proprie della filosofia mistico-ermetica. Nel vasto universo culturale del Rinascimento si deve rinvenire infatti quella “rivelazione primaria, immemoriale e assoluta” che si ritroverà nei classici dell’occultismo di fine Ottocento e inizio Novecento. Il mito secolare di una rivelazione perduta, dell’esistenza di una philosophia perennis dimenticata o custodita dal sapere iniziatico e tramandata oralmente oppure nascosta sotto le vestigia segrete dei manoscritti ermetici, ridesta i progetti innovatori dei pensatori rinascimentali, attraverso le creazioni e le innovazioni degli ambienti magico-esoterici. La volontà di uscire dai confini provinciali della cultura, di svecchiare l’orizzonte filosofico per recuperare un perduto senso della totalità, per spaziare liberamente in direzioni diverse, alla ricerca di verità magiche e archetipi mitici, conduce alla rivalutazione della sapienza alchemica, all’approfondimento di tematiche ermetiche che influenzeranno l’occultismo dei secoli successivi, ma, soprattutto, rende trionfante l’immagine dell’uomo come libero artefice del proprio destino, uomo che, conciliatosi con il cosmo, ne diventa, attraverso le conoscenze magico.scientifiche, signore e padrone. Ma non solo. Nel Rinascimento troviamo anche un titanismo luciferino, precursore di opere letterarie del Romanticismo, la ricerca inesausta di un modello dell’uomo universale, l’attenzione degli intellettuali sul ritrovamento e lo studio di fonti che si credevano dimenticate e abbandonate, infine, l’ampliamento dell’orizzonte culturale implicante un’imponente apertura verso l’Egitto e l’Oriente. Il Rinascimento corrisponde alla volontà di recuperare un senso perduto della totalità, di spaziare liberamente in direzioni di fonti diverse alla ricerca di un nuovo senso del sacro. Il recupero del modello di uomo universale trova la sua massima espressione in Leonardo, emblema di un’epoca che tenta di superare ogni confine culturale ma che rimane legata ad antichi archetipi alchemici, quali il panpsichismo universale di Campanella o le corrispondenze ermetiche tra l’uomo-microcosmo, termine medio della creazione, e il macrocosmo divino. La rinascita dell’alchimia si rispecchia anche nella conciliazione tra l’uomo concreto e la natura, nell’esaltazione e glorificazione del corpo che era stato svilito e umiliato dalla teologia medievale; così la riscoperta del corpo comporta il recupero di una “sacra totalità”, intesa come rivalutazione del molteplice, della realtà, una riconciliazione dell’uomo col cosmo. Questa pacificazione tra l’uomo e la natura, e il conseguente studio delle corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo, conducono al ritorno di pratiche magico-alchemiche, inserite in una filosofia del progresso, a cavallo tra mistica e scienza.

Quello che noi oggi chiamiamo il Corpus Hermeticum è un insieme di 17 brevi trattati pervenutici in greco, cui si deve aggiungere l’Asclepio in versione latina, che è considerato opera dello scrittore latino Apuleio di Madaura.

La raccolta medicea che fu scoperta dal monaco Leonardo di Pistoia, e oggi conservata presso al Biblioteca Laurenziana a Firenze, comprendeva i primi 14 dei 17 trattati del Corpus. L’edizione tradotta in latino da Marsilio con il nome di Poimandres fu pubblicata nel 1471. Poimandres era in realtà il titolo del primo trattato che descrive la creazione del mondo in termini simili a quelli di Genesi.

L’intera opera filosofica di Marsilio Ficino ebbe come scopo la conciliazione tra neoplatonismo, pitagorismo e cristianesimo, che egli considerava come le più sapienti e veritiere dottrine dell’antichità. La filosofia ermetica derivante dal Corpus, Asclepius e dai Frammenti di Stobeo, tramanda una sapienza gnostica, né puramente teologica né puramente teoretica, che sa conciliare l’aspetto metafisico, gnoseologico e ontologico a quello “pratico”. La via indicata da Ermete è rivolta al sacro, all’iniziato, a colui che intende realizzare se stesso attraverso la rivelazione, ovvero la comprensione e l’uso della parola, in modo da rivolgersi attivamente alla reintegrazione del pleroma divino. L’uomo è un microcosmo e racchiude in sé non solo i semi della creazione divina, ma anche i segni dell’Intelletto Supremo che ha dato origine al tutto. Ne consegue pertanto una continuità, e non una frattura, tra l’uomo, il cosmo e il divino. Ma per comprendere e ricongiungersi al divino, per attuare la compenetrazione dell’umano nel divino, tra coscienza ed essere, tra sapere e cosmo, l’uomo deve intraprendere un cammino iniziatico di “elevazione”: “Se non ti rendi uguale a Dio, non potrai comprenderlo; poiché il simile è infatti è comprensibile per il simile. Accresci te stesso fino a raggiungere una grandezza incommensurabile; liberati con un balzo da ogni corpo, va al di là di ogni tempo […] Dopo esserti posto in questa situazione in cui niente ti è impossibile, pensati immortale e capace di ogni cosa, di ogni arte, di ogni scienza, di ogni comportamento vivente. Sali più in alto di tutte le altezze e scendi più in basso di qualunque profondità; raccogli in te stesso le sensazioni delle cose create, il fuoco, l’acqua, il secco, l’umido, e pensa di essere contemporaneamente dappertutto […] pensa di non essere ancora nato, di essere nel ventre materno, di essere giovane, vecchio, morto e oltre la morte. Pensa tutte queste cose contemporaneamente […] e allora potrai concepire Dio”.

La grande riscoperta del Corpus si inserisce in questa logica di conciliazione tra i sistemi di filosofia sacra: Ermete Trismegisto era considerato dai contemporanei di Ficino come una persona realmente vissuta, un saggio e un profeta al pari di Mosè, detentore di una sapienza divina, autore di opere compatibili con il sapere cristiano. L’interpretazione allegorica della mitologia risalente all’esegesi omerica del IV sec a. C. assunse presto le posizioni dell’evemerismo, dottrina che interpretava le divinità come esseri umani realmente esistiti che per le loro imprese erano stati divinizzati dopo la morte. L’evemerismo, sviluppatosi a partire dal III sec a. C. portò a ritenere che anche Ermete fosse un personaggio storico divinizzato e, sotto tale influenza, venne presto identificato con il Thoth egiziano, arrivando a una fusione di divinità appartenenti ad ambiti culturali differenti: Ermes, Mercurio, Thoth. Al Thoth-Ermete vennero attribuiti i trattati di teosofia, alchimia e astrologia che vennero raggruppati con il titolo generale di Corpus Hermeticum, a cui vennero aggiunti l’Asclepius e i Frammenti di Stobeo. L’attestazione della sua esistenza era sostenuta anche dalla testimonianza autorevole dei Padri della Chiesa, Lattanzio, Origene, Agostino, Tommaso per i quali era un antenato di Platone e Pitagora. Secondo Lattanzio Ermete “benché fosse solo un uomo, era tuttavia di grande antichità e perfettamente dotato di ogni sorta di sapere […] egli scrisse libri in gran numero, riguardanti la conoscenza delle cose divine”. Così per Sant’Agostino Ermete era il pronipote di un contemporaneo di Mosè. Le genealogie su Ermete erano varie e differenti, chi lo voleva un antenato di Pitagora, come Apollonio, chi il padre di Iside, come Plutarco, chi il fondatore di una città mitica, secondo la testimonianza del Picatrix, testo arabo del x secolo. Cicerone, invece, parla di ben cinque Mercurii che si sarebbero alternati nel corso della storia egizia, mentre per gli esponenti di una letteratura araba sviluppatasi intorno al V, VI e VII secolo, e per gli interpreti della Tradizione il primo Ermete sarebbe vissuto prima del diluvio e avrebbe costruito le piramidi per conservare i segreti delle scienze ermetiche, il secondo sarebbe vissuto a Babilonia dopo il diluvio e avrebbe iniziato Pitagora al sapere esoterico, infine, il terzo sarebbe stato il grande maestro di alchimia. Dalla letteratura medievale al Rinascimento, la figura Ermete fu associata variamente al Cristo come pastore di anime o psicopompo, oppure al diavolo. Il Rinascimento vide il recupero di questa tradizione non solo letteraria ma anche iconografica e pittorica, si ricordi la Primavera del Botticelli, che evoca Ermete come guida delle Grazie, messaggero degli dèi. Quest’epoca vede il ripresentarsi di Ermete al centro della scena culturale impregnata di esoterismo e filosofia neoplatonica. Questa divinità entrò talmente in profondità nell’immaginario culturale dell’epoca da divenire un tema ricorrente. In bilico tra mito letterario, religioso e teurgico, furono talmente tante e diverse le interpretazioni, da divenire una delle più importanti e simboliche figure nella storia della filosofia.

Così Marsilio trovò nei trattati del Corpus e nell’Asclepius una conferma della teoria neoplatonica di derivazione ed emanazione dell’intera realtà dall’Uno, che considera come garanzia e punto di partenza per l’efficacia della magia naturalis.

Ora, come è ovvio, non tutti gli uomini sono maghi, anche se hanno per natura la possibilità di diventarlo; quindi esisterà tutta una serie di pratiche di addestramento all'utilizzo corretto del proprio spirito, un "addestramento pneumatico" (COULIANO 1981).
Tali pratiche sono sostanzialmente di due tipi: passive e attive. Quelle passive consistono in una serie di comportamenti di autopurificazione, che si concretizzano nell'evitare certi cibi, certi comportamenti, certe vesti, certe amicizie ecc. Quelle attive prevedono invece l'assunzione di alimenti e la prossimità con cose dalle influenze benefiche, tipicamente quelle che si trovano sotto l'influsso del Sole, di Giove e di Venere, nonché di Mercurio. Si tratta di erbe, pietre e metalli che hanno per natura la capacità attrarre quei pianeti (DVCC, XI, 544).

Ci troviamo qui di fronte a un parallelismo con il passo dell'Asclepius in cui Trismegisto risponde ad Asclepio circa la qualitas degli dei terrestri, sostenendo che consiste in un insieme di erbe, pietre e aromi che possiedono una forza (vis) naturale divina (Asclepius, 38, 348, 19 sgg.).

Tipi di interventi magici
La magia prevede tecniche per ottenere effetti su cose lontane agendo invece su cose vicine. Questa definizione si può applicare a entrambi i termini della distinzione introdotta da Walker (WALKER 1958, 82) fra: una magia soggettiva, che agisce sul suo stesso operatore;  una magia transitiva, che agisce su altre persone o su oggetti in quanto vengono messe in moto comunque cause fisiche che influenzano un tramite non fisico, bensì spirituale, il quale a sua volta agisce sul piano fisico.
Ficino trae conforto, se non spunto, dalle affermazioni dell'Asclepius sul modo in cui gli antichi costruivano dei terrestri, ovvero idoli contenenti forze spirituali in grado di agire sul mondo materiale.

È evidente che in linea di principio la tecnica descritta nell'Asclepius non è necessariamente limitata alla costruzione di idoli, antropomorfi o teromorfi che siano: qualunque oggetto, gioiello o aggregato, purché composto con i materiali appropriati può funzionare. Si apre qui la possibilità di giustificare la pratica della costruzione di talismani, dotati di attive capacità di intervento sul mondo, soprattutto, per Ficino, di tipo terapeutico.

Inoltre dal citato passo dell'Asclepius risulta chiaro che la scelta dei materiali serve solo a creare il ricettacolo adatto ad ospitare lo spirito desiderato. Perché questo vi penetri realmente, occorrono ulteriori operazioni. L'Asclepius ne indica due:

l'evocazione degli spiriti,
la loro introduzione negli idoli mediante riti sacri e divini.
A questo punto si capisce la cautela di Ficino: per ottenere talismani realmente efficaci, se si sta all'insegnamento di Trismegisto, è necessario avere a che fare con i demoni, benigni o maligni che siano.
È oggetto di dibattito se la magia talismanica di Ficino sia solo spirituale o anche demonica; ma la validità di questa alternativa è stata messa in discussione. 

A ciò Couliano contrappone invece la seguente tripartizione
(COULIANO 1981, 363-5):
Magia spirituale: sempre naturale e naturalmente demonica
Magia demonica: può essere o non essere spirituale
Magia naturale: può essere o non essere spirituale
In termini insiemistici, la magia spirituale si trova all'intersezione fra
la magia demonica e quella naturale:

Se Couliano ha ragione, la magia di Ficino è sicuramente demonica, perché altrimenti i suoi talismani non avrebbero alcuna efficacia, venendo a mancare il tramite spirituale grazie al quale operano.

Al di là dei timori per la salvezza della propria anima, nonché per la propria salute fisica, che solerti inquisitori papali avrebbero potuto mettere seriamente a repentaglio (come accadrà -per citare il caso più emblematico- allo sventurato Giordano Bruno), è ben possibile che Marsilio Ficino fosse in buona fede quando proclamava il candore della sua magia.

La sua idea è che i talismani, vale a dire i ricettacoli costruiti facendo uso dei materiali opportuni nei tempi astrologicamente propizi, non abbiano alcun bisogno dell'evocazione di demoni e di rituali atti a convincere gli stessi a dimorarvi, poiché saranno le simpatie cosmiche naturali a richiamare in essi quel tanto di spirito che basta a renderli efficaci.

L'unica ulteriore operazione richiesta affinché i talismani siano efficaci, è che essi abbiano la forma richiesta, il che si concretizza nel dare loro una determinata immagine, sia in forma scolpita o incisa o dipinta. Nel gioco delle corrispondenze, l'immagine concreta attira lo spirito che le è affine, senza bisogno di oscuri rituali e degli impronunciabili nomi presenti in trattati come il Picatrix, universalmente rispettato e temuto, e che Ficino ben conosceva (PICATRIX 1986).

In questa ottica si comprende come da un lato Ficino si affanni in buona parte del De vita coelitum comparanda a trovare e citare autorità in grado di difendere l'Asclepius (fra cui Plotino, Sinesio, S. Tommaso, Origene e, come nel caso di quest'ultimo, non sempre a proprosito) e contemporaneamente a cercare di evitare almeno certi tipi di figure astrali, soprattutto i trentasei Decani, universalmente considerati demoniaci e ampiamente descritti nel Picatrix, in favore dei pianeti e delle costellazioni, considerati invece riflessi delle idee divine rilanciati dall'anima del mondo (v. YATES 1964, 87-88).

Magia e libro arbitrio

Questo tema richiederebbe uno studio di tale portata, da costituire un progetto di ricerca in sé stesso.
In questa sede, si vuole solo ribadire in che modo la teoria ficiniana della magia possa preservare il libero arbitrio dell'uomo dalle influenze stellari, esaltarne le possibilità e renderlo immune da possibili influssi demoniaci.
Valga dunque la seguente sintesi:
ogni uomo, per tramite del proprio spirito, viene influenzato dai movimenti degli astri che agiscono attraverso i loro spiriti. Essi tuttavia non possono intaccarne l'anima, che si trova fuori della loro portata e che pertanto mantiene la propria libertà e assoluta potestà. Proprio essendo libera, l'anima può, se possiede le conoscenze necessarie e l'indispensabile addestramento pneumatico, operare a livello di spirito e, a un primo stadio, manipolare opportunamente gli influssi astrali in modo che il corpo ne riceva giovamento, ma a uno stadio più elevato, far entrare il proprio spirito individuale in quello che potremmo chiamare il 'gioco degli spiriti' e influenzare la realtà esterna.

  Il magico mondo di Harry Potter
 
Di Enrica Perucchietti


Là dove il fantastico incontra la magia e la mitologia sposa la favola fondendo i sogni millenari dell’uomo con l’immaginazione incontaminata dei bambini, incontriamo la saga di Harry Potter. La vera magia di questi libri non è racchiusa soltanto negli incantesimi, né rappresentata dalle creature fantastiche che li popolano, ma dai valori morali che essi propugnano, dalla speranza che impregna ogni pagina, dalla realtà vista e raccontata attraverso lo sguardo incontaminato dei bambini: perché tutto nel magico mondo dell’infanzia può succedere, magico ma altrettanto reale, ferito anch’esso dal dolore, dalla morte, dalla malvagità degli adulti, dalla stupidità dei Babbani. Rimane però un mondo incantato perché in esso il Bene può ancora trionfare. Questa è la vera magia: la volontà che trionfa sul Male. E non possiamo dimenticare che per i maghi e gli occultisti è proprio attraverso il dominio della propria volontà che si può plasmare la realtà e controllare le sue forze a proprio piacimento. Inutile ricostruire la fama mondiale dei primi sei libri aventi come protagonista il maghetto Harry, ma le ragioni di tale successo sono da rivenire su più orizzonti: da un lato abbiamo un protagonista bambino (nel primo libro ha undici anni) che vediamo crescere, assistendo ai problemi di ogni adolescente (così come accade nel telefilm idolo dei teenagers “Buffy, the vampire slayer”, dove assistiamo alla crescita e maturazione della cacciatrice Buffy e del suo gruppo di amici); dall’altro la vera vita di Harry è all’interno della scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.

Hogwarts e i suoi studenti
L’ambientazione dei romanzi si alterna tra uno scenario di vita reale a quello immerso nel mondo dei maghi. Un doppio mondo si palesa ai lettori: a quello quotidiano a cui tutti apparteniamo si affianca un mondo invisibile agli occhi dei Babbani (ossia dei non-maghi), fatto di incantesimi, creature fantastiche, vere e proprie scuole di magia. Un incantesimo impedisce ai Babbani di vedere la scuola di Hogwarts e i suoi frequentatori (proprio come nella saga “Artemis Fowl” di Eoin Colfer i “Fangosi”, ossia gli umani, non possono vedere le magiche creature del Piccolo Popolo, elfi, folletti, gnomi, etc.). A Hogwarts la Rowling ha ricreato un complesso scenario magico: classi dai nomi e caratteristiche alchemiche (Tassorosso, Corvonero, Serpeverde, Grifondoro), cappelli parlanti, specchi magici, mantelli dell’invisibilità, gufi porta lettere, manici di scopa ultratecnologici, passaporta per teletrasportarsi, prelibatezze dolciarie come le Cioccorane o le caramelle Tuttigusti+1, etc. costellando il suo mondo magico di parentesi ironiche: il quidditch, per esempio, rappresenta una satira della violenza dello sport nei campus inglesi. L’emporio magico di Diagon Alley, invece, ricorda il negozio di magia di Giles in Buffy. Ma a questa dimensione parallela e totalmente magica si aggiunge una sezione occulta del governo inglese: il Ministero della Magia che media tra il governo e l’elitè dei maghi. All’interno del Ministero della Magia, però, si cela nell’ombra una cellula occulta di maghi cattivi, seguaci del Signore del Male, Voldemort. Molti degli allievi di Hogwarts sono “Purosangue” come Ron Weasley, Neville Paciock e l’odiatissimo Draco Malfoy, mentre altri sono dei “Mezzosangue”, ossia di sangue misto, come Voldemort e lo stesso Harry, la cui madre era figlia di Babbani, altri ancora figli di entrambi Babbani, come Hermione Granger. Ma non vi è nessuna forma di elitarismo, anzi: l’alunna più brava di Hogwarts è proprio Hermione, una figlia di Babbani. Così ogni caratteristica tradizionale tipica delle favole è superata: se il ragazzino biondo e bello è il perfido Draco, Harry è fisicamente un ragazzo normale, né bello né brutto, bruno, con gli occhi verdi e gli occhiali, e con una cicatrice in fronte a forma di saetta, proprio come il dodicenne genio del crimine Artemis Fowl è descritto come un “adolescente diafano”, “pallido come un vampiro”. In Harry si possono identificare i giovani lettori che per una volta non dovranno assumere come eroe un ragazzo perfetto, bello e irraggiungibile. I suoi problemi sono i loro. Ciò spiega anche in parte il successo mondiale del maghetto e dei suoi “colleghi”. Se Buffy è una bella ragazza alle prese con problemi sentimentali che fanno invidia a Rossella O’Hara, e una drammatica situazione famigliare che sfocia nella morte della madre, i suoi amici sono ragazzi comuni e altrettanto problematici: la secchiona Willow si rivela una potentissima strega, mentre Xander, il “fallito” per eccellenza, è sempre pronto ad aiutare gli amici. Proprio coloro che la morale americana considera “reietti” salvano il mondo di continuo, rivalendosi in tal modo sugli altri ragazzi belli, ricchi, vuoti e superficiali che la società acclama invece “vincenti”, ma che risultano più odiosi dei demoni da eliminare. In Harry Potter e in Buffy si assiste a una sostanzializzazione del Male, dandogli un volto orrorifico e pertanto riconoscibile, in qualche modo rassicurante: nel momento in cui si riconosce il Male lo si può anche affrontare. In Buffy i diversi e gli emarginati diventano eroi, e anche i vampiri, come Angel o Spike meritano redenzione, acquistando un’anima e diventando veri e propri eroi Romantici, mentre nel Principe Mezzosangue, che vede finalmente l’irrompere del tema sentimentale, Harry è costretto a rinunciare all’amore di Ginny Weasley, sorella minore di Ron, per non metterla in pericolo nella battaglia che si è scatenata contro gli adepti di Voldemort. Come nelle fiabe nere di Andersen e dei fratelli Grimm troviamo i problemi universali dell’uomo che anche i bambini si devono trovare ad affrontare: il dolore, la sofferenza, la morte, il sacrificio, l’amore. I romanzi di Harry Potter non sono ambientati in un paradiso idilliaco, o in una dimensione statica: a differenza delle favole di Perrault è l’eroe che deve sconfiggere il male e salvarsi contando sulle sole proprie forze. Harry, Buffy e i loro amici sono lontanissimi dalle principesse che aspettano di essere salvate dal principe azzuro. Come nei romanzi di Roald Dahl e di Lemony Snickett i bambini si trovano da soli a fronteggiare il male. Gli adulti non li sanno ascoltare, non li credono, non hanno tempo per loro. Ciò non significa che in Harry Potter non vi siano figure tipiche o classiche delle fiabe e del mondo della magia: emblematico è il preside di Hogwarts, Albus Silente, che riprendendo il modello del vecchio saggio che guida l’eroe, evoca il ricordo di Gandalf in Tolkien.

Iniziazione e magia
La vera vita di Harry è a Hogwarts. Orfano di entrambi i genitori, i maghi Lily e James Potter, è stato adottato dagli zii, gli odiosi Babbani Dursley (che ricordano i genitori di Matilda di Roald Dahl). Nel primo libro Harry, all’età di 11 anni scopre la verità sulla morte dei propri genitori. Il primo personaggio appartenente al mondo della magia che Harry conosce e che gli rivela la sua vera identità di mago è Rubeus Hagrid, un gigante dal cuore buono, Custode di Hogwarts, Guardiano del Bosco e insegnante di cura delle creature magiche. Con la sua imponenza e la sua lunga barba nera Hagrid rappresenta il “Guardiano della Soglia”, figura dell’occultismo classico spiegata da Rudolf Steiner nella sua Iniziazione, ossia colui che ha il compito di mettere alla prova l’iniziato per fargli rivelare la sua vera natura. Il Guardiano della Soglia si presenta infatti come mostruoso, terrificante: soltanto chi mostra coraggio e sicurezza può proseguire nel cammino dell’iniziazione. Il secondo Guardiano della Soglia è il terribile Fuffi, il cane a tre teste posto a guardia della Pietra Filosofale, che richiama il mitico Cerbero, il guardiano dei morti. Nel primo romanzo il mistero attorno al quale ruotano le avventure di Harry e dei suoi amici è infatti la mitica Pietra Filosofale che l’alchimista Nicholas Flamel avrebbe ottenuto in laboratorio e nascosto in una camera segreta nel castello di Hogwarts. Ed è proprio la Pietra Filosofale l’obiettivo del terribile Voldemort. Questi è il colpevole della morte dei genitori di Harry. Ma la madre, Lily, per salvare il piccolo Harry dalla morte si sacrifica per lui creando una barriera difensiva che rende il bambino intoccabile da Voldemort. Questo incantesimo d’amore rende Harry l’“Eletto” della profezia che si rivelerà nel quinto libro, e il nemico di Voldemort che, sconfitto, si ritrova in uno stato larvale tra la vita e la morte. Per riconquistare potere e forza egli cerca nella prima avventura di trovare la Pietra Filosofale attraverso il corpo di Raptor, il professore di Difesa contro le Arti Oscure (per ritrovare vigore beve il sangue di unicorno che, appartenendo a una creatura pura, incontaminata, costituisce un vero e proprio atto demoniaco), mentre nel secondo libro cerca di rivivere attraverso il suo diario di quando era un giovane alunno di Hogwarts e si chiamava ancora Tom Riddle. Il diabolico Voldemort fa trovare il suo diario a Ginny e, plagiandola, si nutre della sua energia vitale: più lei si indebolisce più lui si fortifica. L’errore di Ginny consiste nel sostanzializzare le pagine bianche del diario di Tom, nel rispondere alla sua chiamata demoniaca: attraverso la sua risposta quelli che erano solo dei ricordi riprendono vita. Quando Harry si trova dinanzi il ricordo di Tom Riddle che ha ripreso vita, l’unico modo per distruggerlo è trafiggere il diario con un dente avvelenato di Basilisco. Distruggendo il diario muore con esso il ricordo di Voldemort. Si potrebbe paragonare questo episodio ai fenomeni degli E.V.P., alle sedute spiritiche e ai fenomeni medianici più in generale: è l’attenzione del medium a dar vita e potere ai messaggi medianici che si nutrono dell’energia vitale della persona che li evoca o riceve.

La paura del diverso
Come ha dimostrato il filosofo francese René Girard, la paura del diverso conduce alla sua violenta estromissione dalla società. In situazioni di crisi i membri di una società canalizzano le proprie tensioni su un appartenente del gruppo che è sentito come diverso: questi diventa il capro espiatorio su cui si converge la violenza del gruppo che per purificarsi lo estromette. Harry e Buffy rappresentano a pieno questo ruolo (come Bejamin Malaussene nei romanzi di Daniel Pennac): basta un elemento di diversità per insospettire e decretare l’espulsione dal gruppo. Buffy nell’ultima serie viene scacciata brutalmente dagli amici e dalla sorella e l’unico a restarle vicino è Spike. Harry subisce, invece, il sospetto e l’allontanamento in situazioni diverse, anche dagli amici più stretti: nel quarto libro gli studenti credono che Harry sia riuscito con l’inganno a trovare il modo per iscriversi alla Coppa TreMaghi, e Ron arriva a toglierli il saluto. Giungono perfino ad accusarlo della morte di Cedric Diggory, ucciso invece da Voldemort con un incantesimo di Avada Kedavra (si noti come l’Eletto passa attraverso il Calice di Fuoco, quasi come un novello Parsifal o Galvano). Quando si scopre che Harry conosce il Serpentese, la lingua che permette di comunicare con i rettili, viene emarginato e additato come pericoloso. Se ogni personaggio ha un proprio doppio, Harry rappresenta il doppio di Voldemort: durante l’uccisione dei suoi genitori l’Oscuro Signore ha trasferito su Harry parte dei propri poteri, tra cui la conoscenza del Serpentese, scegliendolo come l’Eletto di cui parla la profezia di Sibilla Cooman al posto di Neville Paciock. Harry poteva infatti non essere il prescelto: la profezia di Sibilla si applicava a due giovani maghi: entrambi nati nello stesso periodo, aventi entrambi i genitori membri dell’Ordine della Fenice e sfuggiti a Voldemort per ben tre volte. Attaccando Harry, anch’egli Mezzosangue, Voldemort lo sceglie, designandolo “come suo eguale”, ossia come suo nemico e doppio, al posto di Neville, un Purosangue, e gli incide sulla fronte la cicatrice a forma di saetta come simbolo di maledizione e al tempo stesso di benedizione. La cicatrice costituisce inoltre un contatto a distanza tra i due maghi. Le loro bacchette, infine, sono speculari, essendo state realizzate con una stessa piuma di Fanny, la fenice di Silente. Essendo la bacchetta a scegliere il mago, a Harry è destinata la bacchetta gemella di quella del suo nemico. Così quando Harry affronta Voldemort alla fine del Calice di Fuoco, scampa alla morte perché le loro bacchette sono gemelle: da quella di Voldemort escono gli spettri delle sue ultime vittime che aiutano il giovane mago a scappare.

Sacrificio d’amore
La saga di Harry Potter è stata a più riprese accusata di essere anti-cristiana per la magia in essa contenuta. Se, infatti, nei romanzi più celebri di Tolkien, Michael Ende e C. S. Lewis la magia appartiene a un mondo fatato che non si può identificare né spazialmente né temporalmente con il nostro, in Harry Potter, come in Buffy, Angel, Streghe, etc. la magia è presente nel nostro mondo: a Londra, Sunny Dale, Los Angeles... Nei romanzi della Rowling manca però una Cosmologia, una gerarchia metafisica avente al vertice Dio: ma i valori che Harry Potter propugna, come ha già mostrato M. Introvigne, sono a pieno titolo valori cristiani. Harry non trionfa su Voldemort solo grazie ai suoi poteri magici, in quanto la sua abilità magica non potrebbe equiparare quella del Signore Oscuro e dei suoi seguaci: è il suo coraggio, la sua bontà e intelligenza a renderlo vincitore. Ma, soprattutto, Harry vince perché è umano. Nel Prigioniero di Azkaban Harry vince perché è capace di rinunciare alla vendetta e perdonare Codaliscia che ha tradito i suoi genitori. Il male assoluto è sconfitto da scelte morali, dal sacrifico, dall’amore, dalla compassione e dal perdono. Se Buffy si immola per salvare la sorella Dawn e Spike si sacrifica per salvare Buffy e il mondo dall’Apocalisse, la madre di Harry muore per proteggere il figlioletto, e lo stesso avviene con Sirius e con un personaggio nel sesto libro molto vicino a Harry che non riveliamo. Harry non è neppure come Artemis Fowl un genio del crimine, bensì un mago buono, e suoi i poteri sono totalmente al servizio della lotta contro il Male. Inoltre Harry Potter insegna che non sempre i buoni sono veramente buoni e i cattivi davvero tali: le persone non sono né totalmente buone né totalmente malvagie (se lo diventano è per loro scelta), e tutti hanno diritto a un riscatto. Così Piton salva Harry nonostante il suo odio per i suoi genitori, Sirius si rivela buono, Harry crescendo diventa un adolescente irrequieto e ribelle, nel Principe Mezzosangue, infine, si assiste a un’inversione di ruoli e per Draco si affaccia una possibilità di scelta… Dopotutto, come ricorda il preside Silente a Harry alla fine del secondo romanzo: “Sono le scelte che facciamo […] che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità”.

LILITH

Le origini babilonesi e l’evoluzione letteraria, dalla mitologia greca alla demonologia cabalistica, del mito della più celebre, suadente e perversa demonessa ebraica

Di Enrica Perucchietti

«La luna fu creata il quarto giorno, e durante la sua mancanza, che equivale alla povertà, fu creata Lilith» (Zohar, III, 281 b)

È ormai noto come le tradizioni di numerosi popoli abbiano associato il principio femminile non soltanto all’elemento “seduttivo”, ma anche a quello “demonico”; se nella Cabala il principio demonico procede proprio dall’elemento femminile, nel taoismo cinese lo yin femminile rappresenta le forze negative-passive-fredde, nella tradizione egizia persino Iside viene intesa talvolta come dea lunare, antisolare e incantatrice, che riesce a carpire con l’inganno il nome segreto di Ra. Più in generale il femminino è connesso alla “materia”, alle “Acque” e la sua funzione antagonistica, di stasi, sembra essere quella di assorbire il principio eroico della virilità magica che può condurre al di là della Natura, alla sfera del trascendente. In quest’ambito metafisico e leggendario della sessualità femminile e del demoniaco si inserisce il mito di Lilith.

Le origini babilonesi
Un brano dello Zohar narra come Lilith sia nata nel periodo di oscuramento della Luna, quando lo splendore dell’astro notturno non stempera l’oscurità della notte. L’assenza della luce, che si ripete ogni mese fino a raggiungere l’eclisse, è la causa che permette alle forze del male di farsi strada sulla scena del mondo. Lilith è la personificazione femminile del lato oscuro e negativo della sessualità, la concubina che tormenta di preferenza i giovani che sono privi di una sposa o irretisce mariti che sono separati dalle loro mogli, quando ad esempio sono in viaggio. Questa la descrizione cabalistica di Lilith. Ma quali sono le sue origini? Lilith è un demone femmina che ricopre un ruolo centrale nella demonologia ebraica. La sua figura risale però alla demonologia babilonese, forse persino a quella sumera, che identifica due spiriti simili, maschio e femmina, Lilu e Lilith che solo impropriamente e successivamente vennero ricondotti al termine ebraico laylah, “notte”. Il Talmud, infatti, fa derivare i Lilin da laylah. Questi spiriti malvagi hanno per caratteristica di essere delle demonesse; sono detti anche mazzikim e assumono diversi ruoli; uno di essi, l’Ardat-Lilith, la «bella vergine», desiderabile e insaziata, «demone che rapisce la luce», sceglie le proprie prede tra i maschi, mentre altri si accaniscono contro le partorienti. Ardat-Lilith, la più temuta, è causa anche di malattie: «se una donna è malata, il suo accesso la prende sempre durante la notte: presa dal demone Lilu», cita un testo babilonese. Una tavoletta di Arslan-Tash la rappresenta sotto forma di lupa con la coda di scorpione, in procinto di divorare una bambina. Né sposa, né madre, lei che «non ha conosciuto il godimento, che non si è tolta la veste davanti i lombi del marito», lei che “non ha latte nei suoi seni”, questa è la rapitrice di figli di cui è privata, la demonessa gelosa che si introduce attraverso le finestre nelle abitazioni delle giovani spose per renderle sterili. È sempre lei che in forma di alito di vento soffia la malattia o l’impotenza «nella casa dell’uomo». Babilonia raggruppava infatti in una triade Lilitu, «demone senza sposo» e Lilu, «demone che non ha preso donna», con Ardat-Lili, «la bella vergine». Questa diabolica triade «non prende donna, non ha figli» e in forma di «venti maligni» si attacca e distrugge il vigore sessuale dell’uomo. Un altro esempio classico di questi demoni è Lamatshtu o Labartu, contro cui sono conservate formule d’incantesimo in forma di medaglioni in assiro. Lamatshtu, la Figlia del Cielo, fu cacciata da esso «a causa del suo spirito-soffio malvagio». Sterile, finge di ignorare il suo stato e va alla ricerca di bambini da allattare: «Portatemi i vostri figli affinché io li allatti, e la vostre bambine affinché ne sia la guardiana! Alla bocca delle vostre bambine voglio porgere il mio seno!”. Ma dato che nessuna madre si sacrifica per affidarle la propria progenie, Lamatshtu rapisce i neonati: si intrufola di notte nella camera della partoriente per toccare sette volte il suo ventre e ucciderne il bambino. Il rituale contro l’aborto prescrive di proteggere la donna con degli amuleti fissati agli angoli della stanza o a diverse parti del corpo, con una testa di bronzo del demone Pazuzu attaccata al collo e delle “legature” magiche da annodare alle membra. Inoltre per interdirle il passaggio si recitano orazioni magiche che invochino l’angelo guaritore Raphael o l’iscrizione protettiva di un salmo. Il volto di Lamatshtu è «di una leonessa-dea dal viso pallido, le sue orecchie sono le orecchie di un asino, i suoi seni sono nudi, la sua capigliatura irsuta, le sue mani insozzate di sangue, le sue dita lunghe, le sue unghie lunghe, i suoi piedi sono come quelli de [l’uccello-demone] Anzu, il suo veleno è il veleno del serpente, il suo veleno è il veleno dello scorpione». Si noti che la sua chioma è lunga e fluente e, come quella delle cortigiane, non è raccolta in acconciature né fissata con un velo.

Demonologia ebraica e mitologia greca
Questa terribile demonessa babilonese venne presto assunta dalla demonologia ebraica, divenendo Lilith. La Lilith ebraica divenne l’«insaziabile», la concubina o prima moglie di Adamo. Ma non solo. La tradizione greca ne assunse le caratteristiche fondendole con la propria mitologia. Due gruppi di figure classiche si sovrapposero per dar vita a questa demonessa che preside agli incubi notturni. Da un lato Empusa, lo spettro inviato da Ecate, regina degli inferi, che terrorizzava donne e bambini e si nutriva di carne umana, dall’altro i geni incubi e succubi, come la Sfinge che un vaso arcaico mostra mentre piomba dal cielo su un adolescente addormentato. Le sirene omeriche sono diventate creature mostruose che disturbano il sonno dei mortali per tentarli con sogni erotici ma anche per accoppiarsi con loro e divorarli. La stessa infernale Empusa assume le sembianze di bella donna per attirare le proprie vittime. Queste demonesse sono fanciulle che sono divenute spesso mostri per frustrazione o maleficio: ostinandosi a rimanere vergini, rifiutando i doni di Afrodite, vengono da questa trasformate in uccelli predatori, quasi dei vampiri. E con i vampiri hanno in comune il potere seduttivo. Addormentano con il canto i malcapitati che vogliono aggredire, così come le sirene omeriche ammaliavano i marinai con il loro suadente richiamo. La loro bocca è «insanguinata», come quella del vampiro. L’iconografia le rappresenta mentre ghermiscono con gli artigli una testa umana o un gruppo di giovani; si aggirano fameliche per i cimiteri, dove vengono incisi dei simboli per scacciarle. Secondo un epigono di Enoc, proprio in sirene vennero trasformate le donne ree di aver sedotto gli “angeli del cielo”. La Lilith dei racconti rabbinici è ancora più famelica della Lamatshtu babilonese. Alata, notturna ed errante, è la “strangolatrice” dei neonati e «se non trova prede da divorare si rivolge addirittura contro la sua stessa progenie». Nella Scrittura vi è un solo riferimento a Lilith in Isaia 34:14, tra le bestie da preda e gli spiriti che devasteranno la terra: «Gatti selvatici si incontreranno con iene – profetizza Isaia – i satiri si chiameranno l’un l’altro; vi faranno sosta anche gli uccelli selvatici [lett. Lilith, intesa appunto come demone femminile che vaga tra le rovine] e vi troveranno tranquilla dimora». In quest’epoca è già avvenuta l’identificazione iconografica di Lilith con un demone-uccello assetato di sangue. Non hanno invece fondamento le identificazioni posteriori di Lilith con il demone Agrath, figlia di Mahalath, che si aggira di notte con i suoi 18.000 angeli. Ma un simile demone che si aggira di notte con decina di migliaia di demoni al seguito cavalcando le tenebre della notte e visitando le partorienti nel tentativo di strangolarne i neonati è citato nel Testamento di Salomone, un’opera greca basata sulla magia giudaico-cristiana e risalente al iii secolo. Qui il demone femmina è chiamato Obizoth ma l’identificazione con Lilith è chiaro; se non bastasse la descrizione, il nome dell’angelo Raphael o del profeta Elia inciso su un amuleto vale come una potente barriera protettiva. In Oriente erano anche comuni amuleti che raffiguravano un’inoffensiva Lilith incatenata.

Lilith e Adamo
Ma il nome di Lilith è generalmente associato a quello di Adamo con una doppia funzione: è intesa o come la prima sposa di Adamo, precedente alla creazione di Eva, o, al contrario, come la sua concubina in seguito al peccato originale. Secondo quest’ultima tradizione Adamo, disperato dall’uccisione di Abele da parte del figlio Caino abbandonò il letto di Eva, ritenendo inutile unirsi a lei per generare altri figli. In questo ripudio ricevette le visite notturne della diabolica Lilith che unendosi a lui generò migliaia di demoni in forma di nubi: «incontrò una Lilith chiamata Pinzai la quale giacque con lui e partorì demoni maschi e femmine». Il figlio primogenito di questa unione fu Agrimas. La prole demoniaca invase il mondo e Lilith si pose al capo di essa come regina incontrastata. La seconda versione, invece, la troviamo menzionata nell’Alfabeto di Ben Sira, un’opera che intende spiegare l’usanza diffusa di forgiare amuleti difensivi contro Lilith. Qui la demonessa è identificata con la “prima Eva” che fu creata dalla terra contemporaneamente ad Adamo. Ma tra i due sposi sorse un’aspra polemica riguardante le modalità del rapporto carnale e Lilith infuriata s’involò in aria abbandonando lo sposo che non le voleva concederle la parità sessuale. Su richiesta di Adamo il Signore mandò tre angeli Snwy, Snswy e Smnglf a ritrovarla sulle sponde del Mar Rosso; i tre messaggeri le intimarono di tornare indietro, minacciandola che se avesse disubbidito avrebbero ucciso ogni giorno cento dei suoi figli maschi. Lilith rifiutò, affermando che era stata creata espressamente per far male ai neonati, e poco importava se erano i suoi. Tuttavia fu costretta a giurare che ogni volta che avesse visto l’immagine dei tre angeli incisa su un amuleto avrebbe perduto il suo potere sui bambini e sulle partorienti. Questa versione della leggenda venne ripresa e rielaborata dalla letteratura cristiana bizantina, ma anche dalla letteratura cabalistica successiva. Il demone femmina e i tre angeli messaggeri sono però conosciuti con nomi diversi. La leggenda penetrò anche negli ambienti arabi, dove Lilith è conosciuta come Karina, Tabi’a, o semplicemente come «la madre degli infanti». La personificazione di Lilith come strangolatrice di neonati è già presente negli incantesimi ebraici. Come ricorda Gershom Scholem, da queste antiche tradizioni, Lilith venne fissata nella demonologia cabalistica, nella quale riveste due ruoli primari: la strangolatrice di neonati (come ricorda anche un Midrash: «Quando Lilith non trova neonati, si scatena sui suoi figli») e la seduttrice di uomini, dalle cui polluzioni notturne partorisce un numero infinito di demoni. In questo secondo ruolo viene descritta come la regina di una schiera di temibili entità demoniache che sottostanno ai suoi ordini. Nello Zohar gli appellativi di Lilith sono anche la cortigiana, la perversa, la falsa, la nera. Figura inoltre insieme ad altre quattro madri di demoni: Agrath, Mahalath, e Na’amah. Nuovo nell’immaginario della Cabala pratica è il sodalizio tra Lilith e Samael; in questa nuova versione Lilith figura come regina del regno del male. Nel mondo delle forze occulte, il kelippot, svolge una funzione opposta a quella della Shekhinah (il principio femminile divino nell’ambito delle sefirot, le dieci manifestazioni di Dio nei suoi vari attributi) nel mondo della santità; come la Shekhinah, intesa non soltanto a livello metafisico come la “presenza” di Dio nel mondo, è la madre della Casa di Israele, Lilith è a capo della gente empia, delle nazioni avverse al popolo eletto, e governa su tutto ciò che è impuro. Nella Cabala pratica si osserva una gerarchizzazione della figura di Lilith che viene distinta in vari gradi, ognuno corrispondente a un demone maschile: la Lilith maggiore è la sposa di Samael, la Lilith minore la compagna di Asmodeo e così via. Il folklore ebraico attesta anche l’identificazione di Lilith con la regina di Saba (contenuta persino nello Zohar): questa leggenda ha origine nel Targum, ossia nella traduzione aramaico-giudaica, di Giobbe 1:15, basato sul mito ebraico e arabo secondo il quale la regina di Saba era in realtà un jinn, per metà umana e per l’altra metà demone. Come spiega ancora Scholem, in Livnat ha-Sappir, Joseph Angelino sostiene che «gli enigmi proposti dalla regina a Salomone fossero in realtà le parole di seduzione che la prima Lilith rivolse ad Adamo. Nel folklore ashkenazi, questa figura si fuse con l’immagine popolare di Elena di Troia, o la Frau Venus della mitologia tedesca. Fino a tempi recenti la regina di Saba veniva popolarmente descritta come rapitrice di bambini e come una strega demoniaca. È probabile che via sia un residuo dell’immagine di Lilith come compagna di Satana nelle popolari nozioni europee tardo-medievali della concubina o della moglie di Satana nel folklore tedesco», dove talvolta viene raffigurata come seducente danzatrice, oppure sotto forma di gatta, oca o di qualche altro animale. Nella Cabala influenzata dall’astrologia, invece, Lilith è collegata con il pianeta Saturno, e tutti coloro che hanno un temperamento “malinconico”, il celebre “umor nero”, sono suoi figli! Dal xvi secolo in poi si diffuse la credenza che se un neonato rideva nel sonno significa che Lilith stava giocando con lui, e quindi era consigliabile dargli «un buffetto sul naso per scongiurare il pericolo».

La simbologia alchemica
Ma Lilith appare anche la simbologia alchemica. C. G. Jung ha precisato che lo spirito di Mercurio ha anche «numerosi rapporti con il lato oscuro. Egli è in parte il serpentino demonio femminile, Lilith o Melusina, sull’albero della filosofia occulta», ma, al contempo, lo Spirito Santo: «Noi dobbiamo accettare questo paradosso scandaloso» per cui il Mercurius ambiguus conferma semplicemente la regola della coniunctio oppositorum. «In ogni caso – prosegue il celebre psichiatra svizzero – il paradosso non è peggiore di quella lepida trovata del creatore, di animare il suo Paradiso, tutto pace e innocenza, con un serpente a quanto pare piuttosto pericoloso, che “per puro caso” si trovava proprio su quell’albero dov’erano le mele espressamente “proibite””». Nell’opera Ripley Scrowle di uno dei più famosi alchimisti inglesi, Sir George Ripley, canonico di Bridlington, l’albero del Paradiso è dimora del serpente sotto forma di Melusina o Lilith. A questa immagine biblica si deve aggiungere un motivo sciamanico per cui «un uomo, presumibilmente l’adepto, si accinge ad arrampicarsi sull’albero e incontra la Melusina (o Lilith) che scende dalla cima dell’albero. L’atto di arrampicarsi sull’albero ha il medesimo significato del viaggio in cielo nel corso del quale lo sciamano incontra la sua sposa celeste. Nell’ambito del cristianesimo medievale l’Anima sciamanica si trasforma in Lilith. Secondo la tradizione [ebraica] costei era il serpente del paradiso e la prima moglie di Adamo, che con lei avrebbe generato i demoni». Lilith si sarebbe in questo senso vendicata sulla progenie di Eva inducendola a mangiare il frutto proibito.

Pico della Mirandola e la tradizione magico-ermetica

Fra magia naturale, cabala pratica, filosofia e religione, il pensiero di uno dei più importanti sostenitori e innovatori dell’ermetismo rinascimentale. Un ricercatore instancabile, uno spirito irrequieto, dal carattere indomito e passionale.

Di Enrica Perucchietti

«“Grande miracolo è l’uomo, o Asclepio” […] [Dio] stabilì che a colui, cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune tutto ciò che singolarmente aveva assegnato agli altri. Accolse perciò l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel tuo posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai […] ottenga e conservi […] Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti, tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine”». Questa citazione è tratta dal manifesto dell’Umanesimo, L’orazione sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico della Mirandola. Divenuto uno dei testi emblematici dell’Umanesimo, ricollegandosi esplicitamente al Corpus Hermeticum, esso verte sul significato metafisico e morale dell’uomo come “grande miracolo”. Tutte le creature sono state create da Dio come ontologicamente determinate, con uno scopo e una forma peculiari. L’uomo, invece, giunto ultimo nella creazione, è stato posto al confine dei due mondi, terreno e ultraterreno, in modo da essere egli stesso padrone del proprio destino, plasmando la propria natura secondo le forme di vita moralmente prescelta. La grandezza dell’uomo consiste nella propria indeterminatezza, nell’essere stato creato da Dio come libero artefice di se stesso. Potrà innalzarsi fino al cielo o degenerare al di sotto del livello animale. Nell’uomo Dio ha riposto tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri: i semi di ogni specie di vita, vegetali, animali, razionali e intellettuali. Se saranno coltivati i primi, l’uomo sarà pianta, se svilupperà quelli sensibili, sarà bestia; se razionali diventerà animale celeste, se, infine, avrà coltivato quelli intellettuali, ascenderà allo stato di “angelo e figlio di Dio”. In questo celebre discorso Pico presenta tutti i temi della sua magia; l’orazione si apre infatti con le parole che Ermete Trismegisto rivolge ad Asclepio, collocandosi esplicitamente nel contesto della magia ermetica. Alla dottrina dell’uomo-microcosmo fautore del proprio destino, si collega uno dei maggiori punti di rilievo della filosofia pichiana, la magia naturale (che riprende da Marsilio Ficino) e la cabala. L’uomo-mago di Pico, infatti, non è altri che il mago descritto nel Corpus Hermeticum.

La concordia filosofica
Convinto assertore della concordia di tutte le filosofie e religioni, nel 1485 Pico aveva deciso di organizzare a sue spese, a Roma, un grande convegno di dotti in cui avrebbe esposto le sue 900 tesi, Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae. Come introduzione vi appose l’orazione De hominis dignitate. Nel suo programma di pacificazione dottrinale, Pico intendeva dimostrare l’armonia tra sistemi differenti, conciliando Platone con Aristotele, Ermete Trismegisto e Tommaso d’Aquino, la filosofia scolastica latina con quella araba, la cabala ebraica e il cristianesimo. Sostenitore dell’unicità della verità, Pico credeva che tutte le scuole e i pensatori avessero in realtà espresso soltanto un aspetto della realtà. Ma, alcune di queste tesi furono giudicate eretiche e condannate dalla Chiesa. Pico le difese nel 1487 nella sua Apologia, ma inutilmente. Subì una serie di disavventure, imprigionato durante la fuga in Francia, liberato per intervento di Lorenzo il Magnifico, infine perdonato da Papa Alessandro VI nel 1493. Tra le 900 tesi vi sono 26 conclusiones magicae, che vertono sia sulla magia naturale che su quella cabalistica.

Magia naturale e magia demonica
La meditazione pichiana contentuta nell’Oratio ripropone tutti i temi delle sue opere: la magia è di due specie, naturale e demonica. Solo la prima è buona e “lecita” perché opera tramite la “simpatia”, ossia i legami spirituali che uniscono tutte le cose. Lo scopo della magia naturale è di sposare “la terra al cielo, cioè le forze delle cose inferiori alle proprietà di quelle superiori”. Praticare la magia, per Pico, “non è altro che maritare il mondo”, riformulando il tema centrale dell’alchimia: le nozze mistiche dei metalli. La vita e la sessualità costituivano un carattere universale del reale. Dall’antichissima alchimia indiana, cinese e babilonese, fino a quella medievale, la vita dei metalli, delle pietre e degli oggetti inanimati non si riduceva a una dinamica misteriosa o animista: la vita cosmica era organizzata come quella degli uomini, conosceva la nascita, la sessualità, la sofferenza e la morte. L’idea alchemica di “combinazione” e “matrimonio” sopravvisse nella magia del Medioevo e del Rinascimento: il mondo, in tutti i suoi livelli, è governato dalla medesima legge di vita, ovvero nascita, amore, sessualità, tortura e morte. Ma, la magia naturale già propugnata da Ficino non è in grado di consentire risultati davvero efficaci, perché non fa ricorso alle forze superiori, limitandosi all’uso di amuleti, talismani, simboli magici. Essa ha pertanto bisogno del completamento della magia cabalistica, ossia del ramo operativo della cabala ebraico-cristiana. Per magia naturale Pico intende l’istituzione di legami fra terra e cielo mediante l’uso di sostanze naturali, secondo i precetti della magia simpatica (che avrà il suo culmine nel panpsichismo universale di Tommaso Campanella). La magia simpatica attribuisce alla realtà forze e attività proprie dell’anima, ossia simpatie naturali che il mago può utilizzare e legare a suo piacimento, unendo e sposando le cose della terra a quelle del cielo mediante l’uso di virtutes naturales. Ma per influire sui vari livelli della realtà, la magia naturale deve ricorrere anche a figure simboliche, immagini astrali, caratteri magici impressi in un talismano, rese efficaci dallo spiritus naturale, dall’anima del mondo. Sono proprio i segni magici ad avere efficacia magica, e non il ricorso a sostanze naturali. Nell’ambito di questa magia Pico esalta l’efficacia degli “Inni di Orfeo”, che si devono eseguire con “la musica adatta” e “un’opportuna disposizione dell’animo”. Sebbene gli incantesimi orfici si basino sull’invocazione di nomi di dèi, essi non sono in alcun modo di carattere demonico: “i nomi degli dèi cantati da Orfeo non sono nomi di demoni ingannatori […] ma sono nomi di virtù naturali e divine, distribuite per tutto il mondo dal vero Dio a gran vantaggio dell’uomo, se questi sa servirsene”. Vi è invece una magia cattiva, giustamente proibita dalla Chiesa, opera del demonio e delle tenebre, condannata esplicitamente da Pico nelle sue conclusiones, così come era già stata rigettata da Marsilio Ficino. Bisognerà aspettare l’abate Tritemio, Cornelio Agrippa e John Dee per conoscerne i procedimenti.

La cabala pratica
Ma la magia naturale, compresi gli Inni orfici, senza il ricorso alla cabala, è inoffensiva quanto inefficace. Anche in questo caso Pico distingue due specie di cabala, una teorica, di carattere mistico, l’altra pratica, da intendersi come “la parte suprema della magia naturale”. Per quanto la cabala sia una dottrina mistico-esoterica, speculativa, avente come scopo la conoscenza di Dio attraverso una serie complessa di interpretazioni allegoriche e numeriche delle Scritture, ad essa è collegata anche un’attività magica. La cabala congiunge due aspetti: uno teorico-dottrinale di stampo mistico, l’altro pratico magico che si sviluppa sia in una forma di autoipnosi volta a realizzare su di sé la contemplazione, sia in forma magico-operativa, che si basa sull’alchimia delle lettere, ossia sul potere sacro della lingua ebraica e su quello proveniente dall’invocazione ebraica degli angeli (sia buoni che perversi), nonché delle sefirot, i dieci nomi indicanti i poteri e gli attributi di Dio. I cabalisti elaborarono infatti molti nomi angelici, sconosciuti alle Scritture, a cui attribuirono grande efficacia. Convinto del potere delle lettere e dei nomi ebraici, Pico studiò intensamente la lingua ebraica, divenendone uno dei migliori conoscitori rinascimentali. L’alfabeto ebraico, per il cabalista, riflette la natura spirituale del mondo e il linguaggio creativo di Dio. Avvalendosi della gematriah, ossia dell’interpretazione delle lettere attraverso il loro valore numerico, il cabalista è in grado di desumere dal testo biblico innumerevoli e insospettati significati che nascono dalla sostituzione di parole con altre aventi lo stesso valore numerico. Pico credeva inoltre che la cabala risalisse alla più antica tradizione, addirittura a Mosè, che l’avrebbe tramandata oralmente sotto forma iniziatica ad alcuni eletti, inaugurando una credenza che avrebbe avuto il suo culmine ideologico nella magia cabalistica ottocentesca di Eliphas Levi. Nell’Apologia Pico ha spiegato la suddivisone della cabala in due rami, distinguendo tra una scienza speculativa e una operativa. La prima, definita “filosofia cattolica”, è una tecnica di combinazione delle lettere costituita da alfabeti rotanti, identificabile con l’ars combinandi di Raimondo Lullo, ma risalente probabilmente al mistico Abraham Abu’l-‘Afiya. La seconda scienza cabalistica, definita come “la parte suprema della magia naturale”, riguarda una tecnica che utilizza i poteri di quelle sfere sovracelesti che sono al di sopra della luna, metodo connesso alle tecniche della magia naturale ma ad essa superiore. La magia naturale si avvale delle stelle, mentre la cabala pratica si rivolge a una dimensione trascendente, rivolgendosi direttamente a Dio. In uno stato di estraniamento mistico in cui l’anima intellettuale si separa dal corpo, il cabalista può comunicare con Dio attraverso la mediazione degli arcangeli. Il pericolo è che l’intensità dell’esperienza estatica conduca alla morte corporale, detta la “morte del bacio” (secondo una leggenda ebraica a Mosè, che, non riuscendo ad accettare la punizione divina che gli avrebbe impedito di entrare nella Terra Promessa, si rifiutava di morire sul monte Nebo, Dio strappò l’anima con un bacio, discendendo su di lui). Al contempo i procedimenti della cabala pratica sono di due tipi, così come avviene per la magia bianca e nera. Vi è una forma perversa, degenere di cabala rapportabile alla negromanzia. Questa falsa cabala è praticata da coloro che invocano i demoni, con l’intento di acquisire un potere del mondo sovraceleste per scopi perversi. L’unica differenza di metodo tra la cabala buona e quella demoniaca è il fine. I fautori della prima invocano, oltre ai nomi segreti di Dio, soltanto i nomi degli angeli buoni, rifiutando il ricorso alle evocazioni demoniache. Pico credeva inoltre che l’inefficacia della magia propugnata da Ficino fosse il mancato ricorso a formule in lingua ebraica. Nessuna operazione magica può fare a meno dell’apporto della cabala, e, dunque, del potere sacro della lingua ebraica. Ma nessuno deve praticare le operazioni cabalistiche se non dopo essersi adeguatamente purificato, per non incorrere nell’invocazione dei demoni e per non finire “divorati” dal terribile angelo del male, Azazel. Così come avviene per la magia naturale, per lo yoga e per l’alchimia (soprattutto quella tantrica indiana), l’adepto deve premunirsi dai pericoli demoniaci, adempiendo a ferree regole di purificazione rituale. La magia cabalistica di Pico sarebbe stata ripresa e spiegata prima da Johannes Reuchlin nel suo De arte cabalistica, poi, ampliata e ricodificata nella magia angelica di Johannes Tritemio e Agrippa di Nettesheim, sistema che sarebbe stato adottato da John Dee ed Edward Kelley senza più la distinzione tra pratiche bianche e nere, unendo e confondendo le operazioni alchemiche alle evocazioni spiritiche e alla negromanzia. Con Dee e Kelley si segna il passaggio dallo studio puramente speculativo delle arti occulte alla pratica della magia angelica enochiana che vedrà il proprio culmine nella fioritura delle operazioni magiche della Golden Dawn.
 
La Qabbalah

Tra misticismo, teosofia e magia, la storia, l’evoluzione e i segreti di una complessa tradizione esoterica.

Di Enrica Perucchietti

La Qabbalah o Cabala, che dall’ebraico letteralmente significa “tradizione”, indica il patrimonio di insegnamenti esoterici della cultura e del misticismo giudaici, in particolare nelle forme che il misticismo assunse durante il Medioevo a partire dal XII secolo.In questo periodo, infatti, alcuni esponenti della mistica ebraica misero per iscritto il corpus simbolico accumulato in secoli di speculazioni e fino ad allora custodito gelosamente in ristrette cerchie elitarie. Questa forma di divulgazione trova la massima espressione nella redazione dello Zohar, opera mistica scritta in Castiglia alla fine del XIII secolo.

Esoterismo, misticismo e teosofia
La Cabala è un sistema di pensiero esoterico, mistico, teosofico fondato sui sacri libri ebraici (Torah, Sefer Yesirah, Heikhalot, etc.). Nel suo senso più ampio indica tutti i movimenti esoterici giudaici nella loro evoluzione a partire dalla fine del Secondo Tempio. Gli adepti credevano però all’antichità dell’insegnamento cabalistico, ritenendo che la Cabala provenisse direttamente dal profeta Mosè (se non addirittura ad Adamo). Questa “tradizione” è sopravissuta fino a noi, passando per personalità celebri come l’umanista Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) e il mago ottocentesco Eliphas Levi (1810-1875); entrambi sostenevano, infatti, che i segreti della Cabala derivassero dalla rivelazione esoterica di Mosè sul monte Sinai, rivelazione che Mosè aveva tramandato oralmente e in forma iniziatica ad alcuni eletti. Eliphas Levi riteneva che la “santa Cabala” o “tradizione dei figli di Seth” fosse stata “portata da Abramo dalla Caldea, introdotta da Giuseppe al sacerdozio egiziano, raccolta ed epurata da Mosè, nascosta sotto i simboli nella Bibbia, rivelata a San Giovanni dal Salvatore, e contenuta completamente sotto le figure ieratiche analoghe a tutte quelle dell’antichità nell’Apocalisse di quest’apostolo”. Come nel caso dell’alchimia, anche la Cabala ha assunto una struttura iniziatica, esoterica e mistica. Se il misticismo è stato rigettato come caratteristica dell’alchimia da molti pensatori, come Julius Evola e René Guénon e accettato da altri di formazione accademica, come Mircea Eliade e Herbert Silberer (psicologo allievo di Sigmund Freud), in un infinito rimando di accuse e difese dottrinarie, per quanto riguarda la Cabala il discorso è altrettanto complesso. Essa è infatti un fenomeno assolutamente unico e peculiare e non può essere ridotta soltanto a “mistica”. Essa presuppone, infatti, anche un contenuto esoterico e teosofico. La Cabala può venire considerata come una forma di misticismo (e teosofia) in quanto ricerca una percezione di Dio e della creazione i cui elementi intrinseci trascendono però la portata dell’intelletto; il tentativo inesausto e in-finito di perseguire la conoscenza di Dio e dei suoi segreti può avvenire soltanto tramite illuminazione e contemplazione. Pochissime correnti cabalistiche intesero questo misticismo come un’aspirazione alla diretta comunione con Dio attraverso l’annientamento dell’individualità umana. Nella sua forma generale la Cabala si contraddistinse come una dottrina esoterica il cui messaggio, per quanto mistico e dunque trasmissibile mediante simboli e metafore, imponeva restrizioni nella trasmissione. Tali restrizioni riguardavano i candidati all’iniziazione: l’età, il numero, le loro qualità morali, etc. Inizialmente il contenuto esoterico era rapportabile allo gnosticismo e includeva lo studio della magia, dell’angelologia e della cosmologia. Solo in seguito, con l’incontro della filosofia giudaica medievale, la Cabala assunse i caratteri di una cera e propria “teologia mistica”. Questo processo evolutivo condusse alla distinzione delle due tendenze, speculativa e pratica, nella separazione degli elementi mistici e speculativi da quelli pratico-occulti, soprattutto magici, dando vita a una Cabala speculativa e a una Cabala pratica (che sarà ripresa nel Rinascimento da Giovanni Pico della Mirandola come la “parte estrema” o il completamento della “magia naturale”). La maggior parte dei cabalisti, inoltre, negava qualsiasi sviluppo storico nella Cabala, interpretandola come una forma di rivelazione primordiale che era stata trasmessa ad Adamo o alle prime generazioni di patriarchi e che permaneva nella forma “epurata” e sistematizzata da Mosè.

La dottrina delle dieci sefirot
Nucleo dell’insegnamento cabalistico è la dottrina delle dieci sefirot (plurale di sefirah) e delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. Come ha sostenuto una delle massime autorità mondiali nel campo degli studi sulla Cabala e sul misticismo ebraico, Gershom Scholem (1897-1982), le sefirot sono “i dieci nomi più comuni di Dio e, nel loro complesso, formano il Suo unico grande nome”, identificano cioè ciascuno dei dieci stadi della manifestazione di Dio e dei suoi attributi. Inserite in un contesto cosmologico, le dieci sefirot assumono un aspetto creativo, essendo “i nomi creativi che Dio chiamò al mondo”: l’universo è da intendersi come lo sviluppo esterno di queste forze viventi in Dio. Il loro insieme forma l’“albero sefirotico”, attraverso il quale l’energia divina si diffonde nel cosmo.

La Cabala magica
Un aspetto peculiare della Cabala è l’importanza assegnata agli angeli, ai cui nomi è attribuita una potente efficacia magica. Gli angeli sono entità intermedie tra Dio e l’uomo che amministrano il creato eseguendo il volere del Signore. Nell’angelologia cabalistica questi spiriti divini sono disposti secondo precise scale gerarchiche. Esistono sia gli angeli buoni che quelli cattivi, i demoni, le cui gerarchie corrispondono simmetricamente a quelle dei loro antagonisti “buoni”. La distinzione in Cabala pratica e Cabala speculativa ha assunto in Spagna la forma di un doppio sentiero esoterico, due vie di carattere complementare: la “Via delle sefirot” (ritenuta utile per i principianti) e la “Via dei nomi” (che si apriva all’adepto solo dopo un accurato e profondo studio dello Sefer Yesirah e delle tecniche a cui questo trattato allude). Uno dei maggiori rappresentanti della “Via dei nomi”, fu Abraham Abu’l-‘Afiya, mistico ebreo spagnolo del XIII secolo che elaborò un complesso sistema di meditazione fondato su una tecnica di associazione delle lettere dell’alfabeto ebraico in infinite combinazioni e variazioni, sistema che Pico della Mirandola avrebbe descritto paragonandolo all’ars combinandi del teologo, filosofo e cabalista Raimondo Lullo. Sembra che Abu’l-‘Afiya abbia inoltre sperimentato soggettivamente il lato magico-mistico della Cabala che Scholem ha descritto come una tecnica di autoipnosi esercitata su di sé per agevolare la contemplazione. La forma operativa della Cabala magica si avvale anche di un articolato sistema di invocazioni angeliche attraverso i “nomi angelici”. I cabalisti elaborarono infatti numerosi nomi angelici che, invocati o incisi su talismani, erano considerati di grande efficacia. Tali invocazioni e incisioni dovevano avvenire necessariamente in ebraico. I maghi potevano però invocare sia i poteri degli angeli buoni, sia i poteri di quelli perversi: l’unica differenza alla base delle due tecniche operative consisteva nel fine.

La Gematriah
La gematriah è forse l’aspetto più noto dell’ermeneutica cabalistica. Per gematriah s’intende il metodo di interpretazione e di permutazione delle parole ebraiche attraverso il valore numerico delle lettere che le compongono, mediante criteri di sostituzione alfabetica. Nella tradizione cabalistica le lettere ebraiche sono infatti ritenute le depositarie della potenza divina, in virtù della quale convogliano nel reale l’impulso e la potenza magica della creazione. L’energia racchiusa nelle lettere è in grado di introdurre l’adepto in un universo dominato dalla magia e dal misticismo. Così lo studioso cabalista si interroga sui legami esoterici che intercorrono tra lettere e numeri, tra parole e Dio. La corrispondenza tra lettere e numeri è un dato peculiare della cultura e tradizione giudaica. Gli ebrei usano infatti come cifre numeriche le stesse ventidue lettere del loro alfabeto: le prime nove servono per rappresentare l’unità, le successive nove per le decine, e così via per le centinaia. Attraverso la gematriah il mistico ebreo desume dal testo sacro innumerevoli nuovi significati, rapporti ed equivalenze che nascono dalla sostituzione di parole con altre aventi il medesimo valore numerico. A ogni lettera dell’alfabeto ebraico veniva associato un valore numerico. Ogni parola in ebraico aveva anche un valore numerico proprio, risultante dalla somma dei valori individuali delle lettere che la componevano. Nella numerologia moderna la gematriah è stata adattata per essere utilizzata con altri alfabeti; se applicato al nome di una persona questa disciplina esoterica permette di ricavare informazioni sul carattere e conseguenti messaggi profetici.