martedì 12 aprile 2011

IL MITO DEL GRAAL TRA SACRIFICIO E NOZZE ALCHEMICHE

di Enrica Perucchietti


Da secoli il mito del Graal evoca un incredibile interesse. Mai un oggetto sacro è stato così cercato, cantato, interpretato: senza in realtà sapere bene di che cosa si tratti al di là della leggenda. Ma il suo fascino deriva proprio da qui: dal mistero in cui è avvolto. Dalle allusioni che il suo simbolismo evoca senza mai rivelarsi completamente. Il Graal è vicino ma al contempo lontano, inafferrabile.
Mai un tema come quello del Graal ha stimolato tanto l’intelletto di filosofi, storici e archeologi e la fantasia di poeti, scrittori e registi. Ma come per altri enigmi altrettanto famosi il destino ha voluto che esso fosse conosciuto quasi esclusivamente per la sua codificazione cristiana come calice dell’Ultima Cena e come coppa che raccolse il sangue del Cristo in croce. L’età contemporanea ha ereditato la funzione di cantore del mito dai cicli cavallereschi e ancor prima dalle saghe celtiche, tramandando la leggenda al grande pubblico attraverso le immagini di un film di Steven Spielberg, Indiana Jones e l’Ultima crociata. Tutto ciò sebbene l’introduttore letterario dell’argomento, Chretien de Troyes, non ci abbia tramandato che cosa realmente contenesse la misteriosa coppa. Da qua il moltiplicarsi di interpretazioni più o meno attendibili: denominatore comune la tradizione cristiana.
Il simbolo del Graal affonda invece le radici nella tradizione primordiale dove è presente e da dove poi si è diffuso nelle varie tradizioni locali come coppa, libro, pietra.

Il simbolo dietro il Graal
Ogni vero simbolo reca infatti in sé molteplici significati che non si possono ridurre a un’unica e univoca interpretazione, e questo fin dalla loro origine, in virtù della “legge di corrispondenza” che lega tutti i mondi o piani di esistenza fra loro.
E il Graal deve essere letto ancora oggi come un simbolo, non come un oggetto meramente fisico: solo in quest’ottica si può comprendere la sua portata evocatrice, salvaguardando il simbolo dal pericolo della degradazione. Ciò non significa però che il simbolo sia soggettivo in base alla molteplicità di significati a cui allude. Il simbolo non è relativo né tantomeno soggettivo. Il simbolo è vivo anche quando sembra ormai appartenere a una cultura remota, dimenticata: esso parla, allude a. Ma ha determinati e specifici significati. Lo scopo del ricercatore o dell’eroe è proprio quello di far parlare il simbolo, di ascoltarlo.
Lo spirito di una determinata cultura quando non riesce più a riconoscere il significato metafisico di un archetipo subisce un’involuzione interpretativa, per cui il simbolo decade e viene interpretato in base a significati sempre più grossolani e deteriori. Questo fenomeno viene riscontrato soprattutto nell’epoca contemporanea e l’eco suscitata dal romanzo di Dan Brown lo rappresenta a pieno: con Brown il Graal perde il suo potere evocativo, il suo infinito rimandare a significati metafisici, decadendo su un piano puramente e unicamente fisico. Il Graal diventa così la “progenie messianica”, il simbolo della discendenza fisica di Gesù. Non è più un simbolo ma anche un oggetto: esso diviene unicamente un’indicazione, la stirpe regale di Gesù.
In questo senso anche una ipotetico matrimonio tra Gesù e la Maddalena, immagine fisica dell’unione tra il Cristo e la Sophia, perde quel significato di nozze mistiche che dalla Tradizione Primordiale si era tramandato fino a noi.
Quello che ancora per gli esoteristi del Novecento era da considerarsi come un matrimonio occulto – ovvero l’assorbimento del principio femminile della Sposa in quello maschile dell’Iniziato - si perde nella ricerca di una linea di discendenza diretta di Gesù che ritroviamo romanzato nel Codice Da Vinci.
Millenni di tradizione spazzati via dal clamore di un romanzo.

Androginia e matrimonio occulto
La figura dell’androgino aveva già subito una fase di decadimento, come aveva evidenziato il massimo storico delle religioni Mircea Eliade nel suo Mefistofele e l’Androgine, mostrando come il Decandentismo avesse scordato gli insegnamenti della filosofia orientale; così per i rappresentanti di questa corrente l’androgino fu concepito solamente “come un ermafrodito nel quale i due sessi coesistono sia dal punto di vista anatomico che fisiologico”. Se nel Romanticismo tedesco, invece, l’androgino divenne sinonimo di “modello dell’uomo perfetto del futuro”, solo con le opere del romanziere austriaco Gustav Meyrink – noto come autore del Golem e del Volto Verde - si poté assistere a un ritorno all’insegnamento della sapienza tradizionale relativa al tema del matrimonio occulto. Solo nel solco di questa via di realizzazione spirituale può essere intesa l’unione di Gesù con la Maddalena, riprendendo l’invito del Cristo contenuto nel Vangelo di Tommaso: “Ecco, io la [Maddalena] trarrò a me in modo da fare anche di lei un maschio, affinché essa possa diventare uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni donna che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli”.
Dunque non soltanto un annullamento del principio femminile sulla base del mito platonico della caduta nella materia dell’anima divenuta femminile per desiderio passionale, ma un congiungimento dei due principi: “un uomo da solo non può raggiungere questo traguardo [perseguire l’immortalità o perfezione spirituale], ha bisogno di una compagna. Solamente le forze congiunte dell’uomo e della donna rendono possibile l’impresa. Proprio qui sta il senso più profondo del matrimonio, quel senso che l’umanità ha smarrito da millenni”, ricorda il cabalista ebreo Ismael Sephardi nel Volto Verde di Meyrink, illustrando la Via della Vita che conduce alla forma superiore di esistenza dei “viventi”.
L’adepto da solo non è nulla e non può giungere con le sue sole forze al Risveglio. Solo la donna è colei che è in grado di recare aiuto all’uomo. Il compito dell’iniziato non è di sfuggire alla donna, ma di assorbirne il principio femminile, in terra disgiunto da quello maschile. Come ha spiegato infatti Julius Evola in un articolo del 1972, l’idea base è che “l’istinto sessuale […] è la radice della morte”, ma che non bisogna sforzarsi invano di estirparlo come fanno gli asceti; essi “vogliono conquistarsi quella freddezza magica, senza la quale non si può andare al di là della condizione umana, e fuggono perciò la donna. Eppure solo la donna è colei che è in grado di recare loro aiuto”. Il compito dell’uomo non è quindi sfuggire la donna, ma assorbirne il principio femminile, in terra disgiunto da quello maschile, “deve entrare in quest’ultimo e fondersi in uno; solo allora si placheranno tutti gli struggimenti della carne”; solo con questa unione occulta, “che non è priva di pericoli”, si compieranno le nozze alchemiche e si realizzerà quella “freddezza magica che spezza le leggi della terra […] dalla quale sgorga, come dal Nulla, tutto ciò che è in grado di creare il potere dello spirito”.
Gli insegnamenti gnostico-esoterici all’origine delle opere di Meyrink si propongono il ritorno all’unità originaria. La ricercatrice Alessandra Pepe ha interpretato in chiave junghiana il mito dell’androgino come il tentativo di “realizzare la totalità conscia e inconscia della psiche attraverso l’integrazione del proprio Sé”, illustrando, quindi, il tema dell’androginia, consistente nella “conquista del proprio istinto sessuale […] tramite l’unione con il principio femminile presente nell’uomo”, come rivisitazione simbolica del junghiano processo d’individuazione. Così le donne dei romanzi di Meyrink sarebbero personificazioni dell’elemento femminile che l’uomo deve integrare per conseguire l’unità. In questo senso Meyrink, prima ancora di Jung avrebbe compreso il significato simbolico delle “nozze alchemiche”, significato che si cela nelle leggende che ci tramandano un legame nuziale tra Cristo e la Maddalena.

La storicità del Codice da Vinci
In un campo come l’esoterismo che bandisce l’oggettività quantificabile della scienza empirica, una cosa certa è la mancanza assoluta di prove sia storiche sia letterarie riguardanti un fantomatico matrimonio tra Gesù e la Maddalena. Ciò non esclude la possibilità, ma elude il polverone che un romanzo, e si badi bene, soltanto un romanzo e non un saggio, ha sollevato. Si è dimenticato troppo presto che l’astuta pubblicazione di Dan Brown è soltanto un’opera di fantasia, per quanto si riferisca in modo fin troppo evidente a opere saggistiche quali Il Santo Graal di Baigent, Lincoln e Leigh e L’eredità messianica di Sir Gardner.
Una critica del romanzo in questione dovrebbe pertanto spostarsi alle opere che lo hanno ispirato: Dan Brown gioca infatti tra realtà e fantasia come si conviene a un romanziere e i molti dati errati che sono stati inseriti tra le pagine del Codice sono stati accolti per veri e possono fuorviare il lettore meno esperto, ma sono solo il frutto di un’elaborazione fantastica

Le origini del Codice
Ritornando alle tesi che cita implicitamente e che, ricordiamo, gli sono costate un’accusa per plagio, Brown ha dato vita a quello che è stato definito un romanzo sul mistero di Rennes Le Chateau senza Rennes Le Chateau.
Per Lincoln e compagni, infatti, l’abate Sauniere avrebbe trovato il sepolcro di Maria Maddalena con documenti che testimonierebbero la sacra discendenza di Gesù. Ma Brown non nomina mai la piccola località francese anche se il curatore del Louvre trovato morto all’inizio del romanzo si chiama proprio Sauniere…
Non è neppure un’intuizione di Dan Brown l’interpretazione del Graal con coppa-utero, e neppure l’etimologia Sang Real connessa con il sangue reale del Cristo.
Nell’esoterismo classico si ritrova la concezione di San Real come il cuore divino di Cristo, centro dell’essere divino e umano, come vaso “in cui la sua vita si elabora continuamente con il suo sangue”, citando Renè Guènon. Ma in questo senso nasce spontaneo piuttosto il parallelo con l’athanor ermetico: interpretazioni che Brown non prende minimante in considerazione, fermandosi al piano puramente fisico del rapporto tra il Cristo e la Maddalena.
Come prove a sostegno della loro presunta relazione carnale Brown cita solo due debolissimi elementi: che ai tempi di Gesù il celibato era condannato, e un verso del Vangelo apocrifo di Filippo dove si parlerebbe di un presunto bacio sulle labbra. Riguardo al primo punto il celibato non era necessariamente motivo di scandalo in quanto molti predicatori del tempo facevano voto di castità e in definitiva non prova nulla. Sul presunto bacio in bocca, invece, il Vangelo di Filippo non riporta con chiarezza nulla del genere: si parla di “bacio” ma il testo è incompleto e si è soltanto ipotizzato che si potesse tradurre “sulla bocca”. In ogni caso anche questo elemento deve essere contestualizzato: nei primi secoli del Cristianesimo la bocca veniva intesa come la porta dello Spirito e i fedeli si scambiavano il bacio sulle labbra per “trasmettersi” lo Spirito. In questo gesto non c’era alcuna valenza sessuale. E’ infatti attraverso la bocca che gli uomini ricevono il nutrimento spirituale e il bacio d’amore li fa divenire “perfetti” trasmettendo loro il Verbo. Lo stesso Vangelo gnostico di Filippo deve essere interpretato nel contesto d’origine. Di matrice valentiniana, l’autore non si attiene alla dottrina androginica che prescrive l’assorbimento dell’elemento femminile in quello maschile, teorizzando invece un’unione gamica, ossia un matrimonio perfetto, riferendosi in questo senso alla “camera nuziale”, attraverso cui avviene la redenzione. Lo staccarsi di Eva, con la sua creazione, da Adamo, ha infatti scisso l’essenza dell’Anthropos nei due elementi maschile e femminile, provocandone la disgregazione, e dunque la morte. L’equilibrio è stato ristabilito dall’unione perfetta dell’Adamo celeste (Soter) con Sophia: “Per questo motivo è venuto il Cristo: per annullare la separazione che esisteva fin dalle origini e unire di nuovo i due, e per dare la vita a quelli che erano morti nella separazione e unirli”, cita il Vangelo di Filippo. In questo senso la Maddalena è la consorte del Cristo, secondo il parallelo tra Maddalena e Sophia. La Sophia che era sterile, dopo un ravvedimento si è unita con Soter rigenerando gli animi umani destinati al riscatto dalla materia: “La Sophia, che è chiamata sterile, è la madre degli angeli. La consorte di [Cristo è Maria] Maddalena. [Il Signore amava Maddalena] più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla [bocca]. Gli altri discepoli allora gli dissero: - Perché ami lei più di tutti noi? – il Salvatore rispose e disse loro: - Perché non amo voi tutti come lei?”. Proprio l’unione perfetta dei due eoni Sophia e Soter è il motivo del maggior affetto nutrito da Cristo per la Maddalena.

La valenza femminile del Graal
Nella leggenda del Graal non si può però trascurare l’elemento femminile né la valenza sessuale indicata dai simbolismi della lancia e della coppa stessa. La lancia che sanguina rappresenta l’asse del mondo, come vedremo più avanti, ma anche il principio maschile, mentre la coppa rappresenta ovviamente l’elemento femminile che riceve. Come teorizzato da Jesse Weston sarebbe l’unione di questi due principi a ridare al regno del re Pescatore – che è appunto malato – la fecondità e la ricchezza di un tempo.
Come recipiente che dispensa cibo – il Sangue di Cristo – il Graal è stato però interpretato dall’esoterismo classico, come l’utero della Dea Madre, intesa nella sua versione cristiana come la Vergine Maria.
Si badi bene: non la Maddalena.
Il Graal inteso come coppa-utero dà la vita a tutte le creature a patto di essere fecondata: da chi? Dallo Spirito Santo. Il reame del Graal è infatti sterile. Con ciò si può intendere nella sua accezione cristiana l’umanità corrotta dal peccato. Si attende un giovane cavaliere per ridare la fecondità perduta, per rigenerare il reame, per sostituire il vecchio re Pescatore che non è più in grado di garantire fertilità e ricchezza. Il cavaliere eletto è il Messia della tradizione ebraica. E’ il Cristo il cui sangue è stato accolto dalla Dea Madre fecondata dallo Spirito, poi versato in croce come sacrificio per i peccati dell’Uomo e raccolto nella coppa da Giuseppe d’Arimatea dopo la ferita nel costato.
Si noti la circolarità della genesi del simbolo.
L’idea di una progenie fisica di Gesù e della Maddalena non sarebbe altro che una corruzione posteriore di questa interpretazione.
Il Graal, inoltre, è sempre portato di una donna. Ma la portatrice del Graal è spesso descritta come una creatura androgina, come nel racconto di Peredur.
La Quete del Graal è costellata di elementi femminili: essi sostengono il peregrinare iniziatico dell’eroe. Lo studioso Jean Markale sostiene che essa sia “l’immagine della Fata arcaica, o della Dea Madre che procurava ai viaggiatori bevande inebrianti per confrontarli quando si smarrivano nelle terre in capo al mondo, ai limiti di quell’Altro Mondo che, nella tradizione celtica, non è mai in basso o in alto, ma accanto”. Inoltre “sempre grazie a un aspetto di questa Femminilità magica e quasi divina, l’eroe trova alla fine la strada che porta al castello del Graal”. La Cerca è infatti costellata in quasi tutte le sue tappe da donne che rappresentano immagini diverse dello stesso Eterno Femminino.
Non si pensi sia però un’esclusiva dei trovadori in quanto già nell’Epopea di Gilgames troviamo il racconto del peregrinare dell’eroe costellato da figura femminili, Dee e donne umane che aiutano Gilgames nel suo viaggio verso la conquista del segreto dell’immortalità che si rivelerà essere una pianta acquatica. Distrutto dalla morte del compagno di scorribande Enkidu, Gilgames realizza con disperazione di essere mortale e intraprende un lungo viaggio che lo porterà nel Giardino degli Dèi al cospetto di Utnapistim, il Noè babilonese. Egli è infatti l’unico umano a cui gli Dei abbiano rivelato il segreto dell’immortalità che, a sorpresa, decide di condividere con Gilgames.
Nel racconto babilonese assistiamo per la prima volta alla genesi dell’eroe con tutte le prove che la sua iniziazione comporta. Tra esse anche lo scontro con il suo doppio – Enkidu – che ne diviene una sorta di fratello minore e di compagno, la battaglia contro mostri e, infine, l’ultima prova, la ricerca dell’immortalità.
Da notare come a indicare la strada a Gilgames una volta arrivato al Giardino degli Dèi sia Siduri, la “donna della vigna, colei che fa il vino”. Ella vive nel giardino degli Dèi con la coppa d’oro e i tini d’oro “che gli dèi le diedero”: è l’anticipazione femminile del coppiere divino, del Ganimede greco o di Ebe. La coppa riempita della bevanda immortale, sia essa vino o sangue viene custodita da un uomo o da una donna. E’ il coppiere a permettere che la divinità si rigeneri.
Perché?
Forse che gli Dèi abbiano bisogno di qualcosa di “umano” per mantenere la loro immortalità? Questo elemento potrebbe avere qualcosa a che fare con il sangue dell’uomo, con il suo DNA? E’ il coppiere stesso a fornire il “cibo” o “bevanda” dell’immortalità al Dio?
E’ questo il Graal tanto cercato?
E’ forse un segreto che si cela così semplicemente dentro di noi?
In questa direzione sembrerebbe andare l’ufologia contemporanea aperta ad ammettere un intervento di ibridazione esterno nella creazione dell’uomo o più in generale il bisogno di creature ultraterrene o infraterrene – provenienti dal Regno Sotterraneo di Agartha – del sangue umano per potersi rigenerare.
Questa è ovviamente un’interpretazione possibile del Graal. Una. Perché la Tradizione Primordiale ha seminato il nostro cammino verso la conoscenza di indizi ma non della chiave per accedervi. La chiave la dobbiamo trovare dentro di noi.
Forse in tutti i sensi.

La Verità della Queste
Se la Verità è una e coincide con Dio o l’Assoluto, il valore di ogni uomo consiste infatti nella sua ricerca personale, nel perseguimento in-finito della Verità. A ogni cuore, dunque, il suo Graal, a ogni “cavaliere” la sua Queste. Ma il cavaliere deve, una volta ammesso al Castello del Graal, “porre la questione”, necessaria per la restaurazione del regno: l’errore di Parsifal è infatti quello di non chiedere. La funzione della domanda è quella di stabilire un legame tra il mondo umano e quello Altro, divino, del castello del Graal. Non ponendo la domanda necessaria, Parsifal non stabilisce alcun legame e dovrà errare a lungo prima di farvi ritorno. Nel Parzifal di Wolfram von Eschenbach la domanda è unica, fondamentale e non riguarda il Graal: si tratta di chiedere al re di che cosa soffra. In realtà l’eroe pone la domanda quando ha imparato tutto ciò che deve sapere sul Graal, sul re Pescatore e il suo regno. Dopo aver a lungo peregrinato, dopo essersi smarrito e ritrovato, dopo aver sofferto, ma proprio attraverso le imprese e la sofferenza essere rinato. Soprattutto dopo aver trovato lungo la strada molte donne, riflessi dell’Eterno femminino, della Dea Madre cantata da Brown. Così anche il lettore, come il neofita, non deve mai smettere di porsi domande, di interrogarsi, di risalire alle fonti.
Il dubbio, per quanto doloroso, deve divenire universale, deve assurgere a metodo di comprensione filosofica per non rischiare di rimanere intrappolati in interpretazioni errate perché accolte con superficialità.
Non deve mai stupire l’ingenuità della domanda della Queste.
In realtà la risposta, come insegnava Socrate, il cavaliere la porta già con sé. L’iniziazione serve soltanto a permettere alla Verità di sorgere a piena coscienza.
La ricerca del Graal non è altro che una lenta ascensione verso l’illuminazione: “Colui che possiede la conoscenza della verità è un uomo libero” ricorda il Vangelo di Filippo.

Simbolismo della coppa, cuore, libro.
Veniamo ora al simbolismo connesso al Graal.
Il Graal è nell’accezione più comune della tradizione letteraria un vaso, una coppa, da qui la valenza femminile degradata poi in utero. Ma il Graal è al contempo descritto dalla Tradizione Primordiale come un libro e una pietra. Esso ha dunque tre significati, ma l’uno non esclude l’altro, anzi, si compenetrano, affiancandosi al simboli del fiore sacro e della lancia.

Il Graal come vaso: Grasale
Il Graal è un Grasale, un vaso. In questo senso è stato interpretato nell’iconografia e nella letteratura prima cortese e poi sacra come il ricettacolo del sangue di Cristo. E’ il recipiente che raccoglie il vino o sangue di Cristo e che nelle tradizioni pagane precedenti conteneva la bevanda sacra agli dèi: il Soma, l’Haoma, l’Amrita, Fuoco Stellare, l’Ambrosia etc.
Sconcertante il parallelo tra l’Haoma avestico e il sacrifico di Cristo. L’Haoma è una pianta sacra da cui si estrae una bevanda rituale ma il termine indica anche la divinità contenuta nella pianta. Il rito dell’Haoma prevede il sacrificio cruento, ovvero l’uccisione rituale, della divinità contenuta nella pianta attraverso la sua spremitura. Questo rituale produce la bevanda sacra che viene offerta ad altre divinità e assunta dai celebranti per raggiungere l’immortalità. In questo senso il succo della pianta rappresenta il sangue della divinità in essa contenuta. Con il sacrificio rituale il dio Haoma muore e offre il suo succo, ovvero il suo sangue, agli officianti del rituale. E’ la prefigurazione del rito della Messa cristiana.
In questo senso è interessante la corrispondenza con il Cuore che ricorre nell’iconografia cristiana: il Cuore sacro di Cristo che appare in numerose raffigurazioni. Ad esso i fedeli rendono un culto particolare intendendo onorare l’Amore del Messia per gli uomini - di cui il Cuore è ovvio simbolo – e l’organo in quanto tale che lo rende umano ma che lo connette intimamente con il Dio Padre. Nell’Antico Testamento, infatti, sentimenti come amore, paura, coraggio, ira, odio sono attribuiti all’organo cardiaco. In senso lato essi rappresentano le qualità che rendono umana la persona e il cuore raffigura in tal modo la persona stessa e persino l’anima. Cuore e anima sono infatti interscambiabili. Il cuore è infatti il centro dell’attività spirituale, è sede della vita e dei sentimenti che contraddistinguono l’uomo: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, cita il Vangelo di Matteo. Esso è anche sede della coscienza, il centro del controllo delle emozioni e quindi il motore della vita morale.
Se il termine “anima” (“ruach”, spirito, o “nephesh”, anima) viene attribuito anche agli animali (“Poiché la vita della carne è nel sangue” Levitino 17: 11), il “cuore” è relativo soltanto agli uomini. Per questo però il cuore, dopo la Caduta, risulta corrotto e portatore di malvagità: è corrotto dal peccato e va per questo rigenerato, rinnovato. Si noti il significato alchemico del bisogno di rigenerazione del cuore. La trasmutazione si compie soltanto attraverso la purificazione, ma essa necessita di passare per la nigredo, ovvero della prima tappa dell’opera alchemica: la Passione e la morte a cui segue necessariamente la resurrezione.
La vita, la passione, il sacrifico del sangue e la resurrezione del Cristo rappresentano in questo modo tappe reali del cammino dell’iniziato.
In Ezechiele troviamo scritto: “"Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne […] Io darò loro un medesimo cuore, metterò dentro di loro un nuovo spirito, toglierò dal loro corpo il cuore di pietra, e metterò in loro un cuore di carne". Quando lo Spirito Santo compie una rigenerazione è proprio il cuore a esprimere il cambiamento di stato con la confessione di fede in Cristo perché è il cuore rappresenta l’uomo interiore, l’anima dell’uomo da cui necessariamente deve partire il processo di salvezza, come spiegano gli Atti degli Apostoli: “C'era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo”.

La coppa come equivalente simbolico del Cuore di Cristo
La tradizione cristiana ci tramanda quindi una duplice interpretazione: carnale e metaforica, di come andrebbe forse interpretato il Graal: coppa come doppio materiale del simbolo e sostituto simbolico del Cuore di Cristo, con l’accezione ermetica che esso reca necessariamente con sé.
Vediamo come.
Nei geroglifici egizi, infatti, il simbolo che indica il cuore è raffigurato proprio come un “vaso”. Il cuore dell’uomo non è infatti il vaso in cui la sua vita si elabora continuamente con il suo sangue?
Il Graal è infatti la coppa che contiene il sangue di Cristo e lo contiene due volte: dapprima servì all’Ultima Cena, poi esso venne raccolto da Giuseppe d’Arimatea dalla ferita aperta sul costato. In questo senso la coppa si sostituisce al Cuore di Cristo come ricettacolo del suo sangue, ne prende il suo posto e come ci spiega Guénon, ne diviene il suo equivalente simbolico. D’altronde la coppa svolge al pari del cuore stesso un ruolo assai importante in molte tradizioni antiche.
Come coppa è da connettere simbolicamente – come abbiamo visto - al vaso sacro che in Oriente contiene il Soma vedico o l’Haoma mazdeo, prefigurazione dell’eucarestia cristiana. Il contenuto rimanda al segreto dell’immortalità: è una bevanda, sia essa il succo di una pianta o un vino. In entrambi i casi prefigurano il sangue.
Come vaso si collega invece alchemicamente all’athanor all’interno del quale l’alchimista distilla l’elisir di lunga vita – o la pietra filosofale. Anche in questo caso il segreto dell’immortalità, il Graal alchemico, è da intendersi o in forma di bevanda, l’elisir, o di pietra.
Schematicamente come coppa viene rappresentato da un triangolo con la punta capovolta diretta verso il basso. In tal senso rappresenta anche il cuore.

Il Graal come pietra
Questa coppa sarebbe stata intagliata dagli angeli in uno smeraldo staccatosi dalla fronte di Lucifero al momento della sua Caduta. Tale smeraldo richiama in modo sorprendente l’urna, la perla frontale che, nell’iconografia indù, occupa spesso il posto del terzo occhio di Shiva rappresentando anche il senso dell’eternità.
Nella tradizione cristiana il Graal fu affidato ad Adamo nel Paradiso Terrestre ma in seguito alla sua caduta Adamo lo perse non potendolo portare con sé al di fuori dell’Eden. Questo perché il Graal dimora al Centro del Mondo e l’uomo divenuto peccatore non può strapparlo dal Centro. L’uomo, infatti, allontanato dal suo centro originale, il Centro del Mondo identificato nel Paradiso biblico, per sua propria colpa, decade nella sfera temporale. In questo modo non può più contemplare le cose sotto l’aspetto dell’eternità.
Il centro è infatti l’origine, il punto di partenza di tutte le cose: da esso sono prodotte per irradiazione tutte le cose. Il centro è il punto di partenza ma al contempo il punto di arrivo: tutto è derivato dal centro e tutto deve alla fine ritornarvi, un po’ come nella teoria di Origene e Gregorio di Nissa, l’apocatastasi, secondo la quale alla fine dei tempi tutto il creato tornerà in seno a Dio, ergo anche il Diavolo. Nello stoicismo l’apocatastasi simboleggiava il ritorno allo stato originario, il ristabilimento del cosmo, alludendo anche all’Eterno Ritorno. Con i Padri della Chiesa e sotto l’influsso neoplatonico si intese invece alludere al ritorno del creato all’Uno originario e indifferenziato. Secondo Origene alla fine dei tempi avverrà la redenzione universale di tutte le creature che saranno reintegrate nel divino, compresi Satana e la Morte. In tal senso le pene infernali avrebbero solo un senso transitorio, e purificatorio per quanto lunghe. Il disegno finale di Dio non può non comprendere la salvezza del creato. Il disegno salvifico di Dio non può compiersi se anche una sola creatura non può farvi parte. Secondo San Paolo, prima lettera ai Corinzi: “E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”, (1Corinzi 15, 28).

La pietra oracolare
Sarà il terzogenito di Adamo, Seth, a ottenere il permesso di rientrare nel paradiso terrestre per recuperare il Graal. In questo senso Seth è una prefigurazione del Redentore, in quanto annuncia una restaurazione parziale dell’ordine primordiale che era stato distrutto con la caduta di Adamo. La leggenda non aggiunge però da chi e dove fu conservato fino all’epoca di Gesù.
Dopo la morte di Cristo il Graal fu trasportato, secondo la leggenda, in Gran Bretagna da Giuseppe d’Arimatea e da Nicodemo. Da qua la saga dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
Il Graal inteso come pietra recherebbe su di sé delle iscrizioni sacre. Esse sarebbero state tracciate dagli angeli o dal Cristo stesso. Queste iscrizioni di origine non umana appaiono anche in certe circostanze sul lapsit exillis di cui parla von Eschenbach. Per gli alchimisti era una delle designazioni della pietra filosofale. E’ una contrazione fonetica di lapis lapsus ex coelis, la pietra caduta dai cieli, quindi per sua stessa definizione una pietra “in esilio” dalla dimora celeste nella dimora terrestre.
Il lapsit exillis era una pietra parlante o pietra oracolare che invece di emettere suoni parlava attraverso i caratteri in superficie – come lo scudo della tartaruga nelle tradizioni estremo orientali. Come spiega Guénon, è in qualche modo il prototipo degli specchi magici, mentre altri studiosi l’hanno accostata alla Lia Fail, la pietra del destino e della consacrazione dei re d’Irlanda che si accompagna al Calderone del Dagda e alla lancia di Lug.
Nella tradizione biblica abbiamo la coppa di Giuseppe che in questa forma sarebbe una delle forme del Graal. Giuseppe parla infatti in Genesi 44, della sua coppa in cui beve e “per mezzo della quale trae i suoi presagi”.
Fu proprio un altro Giuseppe, D’Arimatea a diventare il custode del Graal. La pietra con la quale Giacobbe consacrò a Betel (Genesi 35, 7: “Qui egli costruì un altare e chiamò quel luogo El Betel”) sarebbe stata la stessa che seguiva gli ebrei nel deserto da cui usciva l’acqua che bevevano (Esodo 17, 6) e che secondo l’interpretazione di San Paolo sarebbe il Cristo stesso ( I Corinzi, X, 4: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava e quella roccia era il Cristo). Infatti il Graal è anche considerato il vaso dell’abbondanza. Da qua il collegamento con la bevanda dell’immortalità e l’elisir di vita…

Graal come libro: Gradale
Il Graal è un vaso ma è anche è un libro. In alcune versioni i due modi si trovano a coincidere perché il libro sarebbe l’iscrizione tracciata dal Cristo o da un angelo sulla Coppa – o pietra - stessa. In questo senso si riprende il mito della Tavola di Smeraldo, il testo sapienziale inciso da Ermete Trismegisto in una tavola di smeraldo. L’analogia è corroborata dal fatto che il Graal sarebbe stato intagliato dallo smeraldo che cadde dalla fronte di Lucifero.
Come libro concerne lo stato corrispondente all’effettivo possesso della tradizione a cui allude invece il simbolo del vaso. E’ la tradizione primordiale, lo stato edenico: è colui che è reintegrato nel paradiso in modo che la sua dimora è ormai al centro del mondo.
Da qua il fatto che, dato che nel mondo occidentale lo spirituale assume la forma specificamente religiosa, i veri custodi della terra santa dovevano essere cavalieri ma anche monaci, e questo furono infatti i Templari.

Il Calice è un fiore
Un altro simbolo connesso al Calice è quello floreale.
Il fiore evoca con la sua forma l’idea di ricettacolo. Si parla infatti del calice di un fiore. In Oriente il fiore simbolico per eccellenza è il loto, in Occidente è la rosa a svolgere tale ruolo.
Nell’abbazia di Fontevrault si vede un disegno dove la rosa è collocata ai piedi di una lancia lungo la quale piovono gocce di sangue. E’ la rappresentazione della rugiada celeste che ha una sua prefigurazione nella manna del deserto.
Abbiamo visto brevemente il simbolismo del centro. Certi fiori simbolici come la rosa o il loto in Oriente con il loro sbocciare rappresentano proprio lo sviluppo della manifestazione. Lo sbocciare è infatti un irradiamento intorno al Centro, da qui anche l’assimilazione con il simbolo della ruota. In questo senso nella tradizione indù il Mondo è rappresentato sotto forma di loto al centro del quale si eleva il Meru, la Montagna sacra che simboleggia il Polo.
Nella tradizione occidentale la rosa viene raffigurata con un numero variabile di petali. Mi limiterò a farvi notare a questo proposito che in genere i numeri cinque e sei si riferiscono al microcosmo e macrocosmo, mentre nel simbolismo alchimistico la rosa a cinque petali posta al centro della croce che rappresenta i 4 elementi, è il simbolo della quintessenza.

Dalla lancia di Lug alla lancia Longino
Tra i vari oggetti a cui il Graal viene associato c’è la lancia. Ovviamente si allude di primo acchito alla lancia del centurione Longino che trafisse il costato di Cristo. Dalla ferita a forma di organo femminile, sgorgarono acqua e sangue raccolti da Giuseppe d’Arimatea nella coppa della Cena.
Questa lancia o almeno il suo equivalente esisteva già come complementare della coppa nelle tradizioni anteriori al cristianesimo, come nella mitologia irlandese che ci parla della lancia di Lug come uno dei quattro tesori conservati insieme al calderone del Dagda, la pietra Lia Fail e la Spada di Luce. Alcune versioni del mito tramandano che la lancia di Lug gocciolasse sempre sangue.
Come simbolo la lancia quando è posta verticalmente allude all’Asse del Mondo che si identifica con il Raggio celeste. Da qua le assimilazioni del raggio solare ad armi come la lancia o la freccia. In alcune rappresentazioni gocce di sangue cadono dalla lancia nella coppa: le gocce di sangue sono la rappresentazione delle influenze emanate dal Purusha che evoca il simbolismo vedico del sacrifico del dio all’origine della manifestazione.
Vediamo invece la tradizione greca come assimila la lancia al simbolo floreale che come abbiamo visto evoca l’immagine della coppa. Nel mito greco di Adone – il cui nome significa Signore, quando l’eroe è colpito a morte dal grifo del cinghiale – che qua svolge la funzione della lancia – il suo sangue si sparge per terra e fa nascere un fiore. Fiore come ricettacolo del sangue del Signore che muore come in una forma di sacrificio cruento trafitto da un elemento animale che si sostituisce alla canonica “lancia” o “freccia”. Le gocce di sangue, così come la rugiada celeste dipinta nell’Abbazia di Fontevrault, sono ancora una volta immagini legate idea di rigenerazione e Resurrezione.

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